La falegnameria “Riverberi di Riverbi”, gioco di parole simpatico quanto essere investiti da un camion con rimorchio si trovava nella parte vecchia del paese. Non è che fosse una parte della città particolarmente interessante dal punto di vista storico anzi, le costruzioni erano più recenti ma aver costruito quell’ammasso di cemento vicino ad una discarica e ad una sorgente solforosa non avevo giovato alla sua attrattiva. In pratica le case erano abbandonate, c’era una puzza terrificante ed era abitato più da volpi che da persone.
La falegnameria era infilata in un cortile interno e probabilmente ricavata da un garage visti anche i rottami automobilistici che ne disseminavano l’entrata. Un’intelaiatura di ferraccio con pannelli in plexiglass ingiallito incorniciavano lo spazio lasciato dalla serranda dell’ex rimessa. Il rosso ruggine del ferro era l’unico tocco di colore in quel cortile circondato da condomini abbandonati e grigi. E poi c’era l’insegna. Quella terrificante insegna viola con scritte gialle, “Riverberi di riverbi”. Lo stile delicato di quella grafia, davvero notevole, si scontrava con l’abbinamento di colori orrendo e fiori disegnati grossolanamente qua e là. Pareva una ottantenne truccata per dimostrarne trenta.
L’interno non era migliore, il pavimento di cemento pitturato di rosso era cosparso di sigarette e segatura. Dei tavolacci di ghisa e legno erano disposti senza logica per la falegnameria che non misurava più di venti metri di lunghezza per quattro di larghezza. Michele notò che per allungare l’ex garage Filippo non si era fatto scrupolo di demolire pareti e soffitti prendendo possesso di altri due garage abbandonati.
Su una sedia da regista, sedeva Filippo Riverbi, intento a spegnere sigarette su delle persiane, “un lavoro” pensò Filippo provando compassione per lo sfortunato cliente. Era vestito con una raffinata camicia di seta rosa, incredibilmente linda vista la drammatica situazione igienica di quel posto. I pantaloni, di un arancione acceso e il cappello di pelle leopardata davano evidentemente una marcia in più alla sua figura e non lasciavano dubbi sul fatto che l’insegna fosse una sua creazione. Le persiane su cui “lavorava” erano già state dipinte malamente di un orrendo verde scuro e anche alla distanza di due metri si vedevano i cardini diversi tra loro e montati storti. Lavori simili a quello, come console antiche sfregiate da seghe circolari, porte con bruciature e tavoli con gambe tutte diverse erano accatastati ovunque. Ma nessuno si era mai lamentato dei lavori di Filippo e per diverse ragioni. Innanzitutto le dimensioni. Filippo Riverbi infatti era alto circa 2,15 m ma non era magro come un cadavere no, era muscolosissimo e dotato di una forza spaventosa. Leggende metropolitane confermate da più persone facevano coincidere il suo arrivo in paese con la sua uscita da prigione per aver picchiato un gorilla in uno zoo…no non è uno scherzo. Aveva trovato lavoro come guardiano e manutentore delle gabbie delle scimmie visto che nessuno voleva farlo. Un giorno entrando dentro la gabbia con una banana, si diresse verso un gorilla giovane ma comunque enorme. Filippo gli si siede di fronte e comincia a sbucciare la banana, senza nessuna protezione che li dividesse, cominciando a mangiarla. Finita la banana prese la buccia e la gettò in faccia al gorilla, alzandosi di scatto e cominciando a prenderlo a sberle. Ovviamente la cosa finì male, il gorilla reagì e cominciarono entrambi a picchiarsi e morsicarsi fino all’arrivo del capo guardiano che narcotizzò tutti e due con un fucile ad aghi. Filippo venne sbattuto in prigione (non era la prima volta) e dopo 3 mesi ributtato fuori con un tutore, che gli trovò un posto in cui vivere nel paese senza nome, l’unico da cui non fosse stato esiliato. L’assistente sociale lo costrinse a trovarsi un lavoro senza pensare troppo alle conseguenze. Riverbi, visto che suo padre faceva il falegname, pensò che per grazia divina ne avesse ereditato il talento. Ovviamente non era cosi, lavorava male, svogliatamente e faceva dei disastri incredibili e anche i rapporti con i clienti erano pessimi, usava la pialla più sulle braccia di chi gli doveva dei soldi che sul legno e non si faceva scrupoli a chiedere prezzi esorbitanti. La gente nonostante tutto gli commissionava continuamente del lavoro per paura che potesse scendere in paese a trovare qualcos’altro da fare. Vedetela così, avete presente quando le popolazioni antiche sacrificavano una vergine per tenere buono il Dio vendicativo oppure quando pagavano i tributi al signorotto locale? Ecco, il succo è quello.
Filippo si girò verso Michele con uno sguardo da star di Hollywood. Aveva un viso tondo, con lunghi capelli stoppacciosi e poco puliti. Prese un altra sigaretta dal suo pacchetto ‘Diana rosse’ e la lanciò verso Michele che la prese al volo.

“Non fumo” rispose Michele.

Senza dire una parola Filippo gli lanciò anche l’accendino, un blocchetto di acciaio con una serigrafia di Winnie the pooh intento a picchiare un sanguinolento Tigro.

“Ah no che stupido…io fumo si, me ne ero dimenticato” rispose nervoso Michele

Michele accese con non poca difficoltà la sigaretta e con la mano tremante dal nervosismo ne aspirò una boccata che fece trasalire i polmoni e la gola che subito protestarono sotto forma di una grottesca tosse.

“Vedi coglionazzo, ti avrebbi rispettato di più se mi buttavi indietro la sigaretta invece di…”

“Si dice avrei…” lo interruppe balbettando Michele “..t-ti avrei rispettato…”

Quello che successe dopo non rimase impresso nella testa di Michele che si limitò a ringraziare madre natura di averlo reso più veloce di uno che picchia i gorilla a mani nude.
Uscì dalla falegnameria poco dopo aver visto la faccia di Riverbi trasformarsi in una sfera rossa presa a martellate, con denti gialli scintillanti di odio. Si alzò con tanta forza dalla sedia che quella volò all’indietro fracassandosi su una mola avvitata malamente ad un banco lavoro. Sentì distintamente i bicipiti strappare la raffinata camicia, una cosa che si ricordava di aver visto solo in ancestrali telefilm su Hulk.
Michele aveva sognato mille volte di trovarsi di fronte ad un treno in corsa e non riuscire a spostarsi, o di reagire con un pugno debolissimo ad un aggressore, ma nella vita reale per fortuna la paura ti dà uno sprint in più. Scattò all’indietro con velocità pazzesca, quasi ribaltandosi su se stesso nel girarsi e un po’ incespicando prese a correre come un ladro colto sul fatto. Uscì dal cortile ad una velocità che non reputava sostenibile dal suo corpo quarantenne, ringraziando che nel paese vecchio di solito non passavano macchine.