Sono le 19:06 ed esco a correre. L’orario è volutamente preciso.
Preciso è il percorso, preciso è il ritmo, la playlist scorre uguale da anni, a volte abbandonata ma che ritorna sempre puntuale anzi, precisa. Sapete…il quotidiano di solito è tragico. Il ripetersi continuo e monotono di situazioni viste mille volte, ma vissute milioni di cui non ti ricorderai nulla. Non te ne ricorderai te, figurati gli altri. Ma questo “quotidiano” mi piace, comincio con una procedura ritmica e precisa di stretching, mi allaccio i pantaloni oramai troppo larghi, e sistemo le scarpe, unico particolare che si è arreso al tempo. Sono gesti automatici, quasi scaramantici, se ne sbaglio uno magari mi faccio male alla caviglia e Dio solo sa quanto ne sarei dispiaciuto. Non sarebbe carino anzi, non sarebbe preciso.

La strada la potrei ripercorrere a memoria, senza guardare. Riconosco i sassolini, le buche, il rumore delle pozzanghere, gli odori delle ditte e delle vie. Ma non è sicuro, non lo è ancora, devo vedere dove vado perché gli altri non lo fanno ed è una cosa che mi infastidisce. Faccio quattro passi a piedi, circa venti metri, giusto il tempo di attivare il cronometro e far partire la playlist. Gli auricolari sono messi male come al solito, e so già che quello di sinistra scivolerà via inesorabilmente, come se avessi un attacco incompatibile.

Ah, non vi ho detto una cosa…non sono mai solo quando corro. Ho degli amici.

Non li conosco. Non li saluto. Li vedo solamente. Decomplicazione di una realtà sovracomplicata, è solo questo. Una cosa sola ci accomuna, ci piace, non serve conoscerci, siamo amici. Anche loro corrono con i loro percorsi precisi, le loro playlist e i loro pensieri chiusi nelle teste. Correndo non ti sfoghi, focalizzi le cose importanti. Le scelte migliori le ho prese correndo e se avessi corso tutta la vita avrei anche fatto meno cazzate. Si chiama logica e fila abbastanza non vi pare? Classica regola del senno di poi, di cui tutti siamo maestri ma da cui non abbiamo mai imparato nulla.

Scusate la digressione, mi capita sempre più spesso…parlavo dei miei amici, gli amici di corsa. C’è stima, posso solo dire questo. Io supero uno che và piano ma lo stimo e lui mi stima. Io vengo superato da uno che va forte, io lo stimo e lui mi stima. Il mondo della corsa da sfogo è l’utopia della civiltà perfetta, ci dovrebbero fare uno stato, aperto solo dalle 19:06 alle 20:06. Tutti sono padroni, tutti sono schiavi, tutti sono amanti. L’importante è che rimanga la stima. Io li stimo, loro mi stimano. Anche se sono lento.

Di solito i primi due chilometri sono incazzato. Brutto da dire lo so ma è cosi ed infatti vado forte, corro davvero forte anche perchè la strada è leggermente in discesa. Correndo forte mi libero delle tossine quelle vere, quelle che ti deformano il cervello e che quando vai a vederti allo specchio la sera, ci vedi dentro solo uno che ti sta antipatico. Correndo forte i primi due chilometri non incontro nessuno e i miei amici non mi vedono incazzato. Metti che qualcuno mi vede e si preoccupa per me? Io sono loro amico, è normale che vogliano fermarsi, chiedermi cosa non vada e io non voglio, non voglio conoscerli e temo per i loro polpacci gonfi di acido lattico. Io li stimo, non voglio parlargli.

Dopo due chilometri e mezzo c’è la ferrovia. In realtà i binari sono stati strappati dal suolo con cattiveria, come uomini e donne allo smistamento in un campo di concentramento. Volevo bene a quei pezzi di ferro. Io amo i treni, templi dello spirito clamorosamente sottovalutati, mentre ora costeggio solo solchi vuoti colmi di pietre, dove nessun treno passa da un anno.

Ma ecco che “lei”spunta da dietro un albero.

Il tetto a punta è caratteristico e cattura lo sguardo. Cerco di non guardare ma sò che non funziona cosi, fa parte di quel rito “preciso”, in cui ormai mento a me stesso. Appena sotto il tetto a punta cerco la luce della tua camera ma è spenta. Anni fà la osservavo da molto più vicino, nelle sere in cui si usciva assieme. Mi avvicinavo, conscio del mio tradizionale ritardo mostruoso e sapevo che eri lì dentro. Incazzata. Ed io felice.
Poi i treni passano, e ti accorgi che era meglio salirci, anche senza biglietto. Amara coincidenza che la tua casa sia proprio lì vicino alla stazione. No ma che dico, uno stronzo accento sbeffeggiativo del destino, altroché. Una volta passato il treno però puoi fare solo due cose, aspettare o tornartene a casa. Io ho fatto entrambi. Ho aspettato e poi me ne sono tornato a casa.

La luce sotto il tetto a punta è spenta, c’è solo quella della cucina accesa ma non mi importa. Non aspetto più che si accenda di nuovo, non fa più parte del rito capisci? Non sarebbe preciso…

E poi è deciso. Io ormai corro verso un’altra luce.