I portici sono la rovina di Varese. Migliaia di persone che scorrono, fluiscono e vivono dentro quei confini fatti di negozi e colonne. Asettici come corridoi di ospedale, angusti come recinti di filo spinato.

Se solo la gente vedesse il vero volto di Varese, i tetti, le facciate dei palazzi…

Non vedrebbero lo squallido grigiore che solo immaginano ma i colori pastello, superfici diverse che si intrecciano, ricami, gargoyles di bronzo ossidato, balconi che si lanciano in motivi floreali, mattoni multicolore e alberi…sullo sfondo, lungo i viali, sui tetti stessi. Se fotografassi solo questi particolari, gente che vive in questa città da anni non la riconoscerebbe, perchè ormai non guarda più in alto ma solo per terra, sempre più concentrata sui problemi materiali, sul sopravvivere, sullo stare sotto i portici.

Anagrammare le insegne che si trovano in giro è l’attività più divertente da fare quando ti senti oppresso dal peso di quel fiume umano che ti scorre contro, in quei 3,45 metri di larghezza.
“Occhiali e lenti a contatto” diventa un negozio che tratta coliche e conati alieni, ed è divertente immaginarsi che ad un tratto, si apra una dimensione parallela in cui la gente strana come me possa vivere in un mondo altrettanto strano. Smetto di fantasticare per tornare nel mondo reale. Suono ad un campanello e dopo qualche secondo sono già sulle scale verso l’ufficio. La scala è pomposa e troppo larga, con luci ambra che illuminano il suo marmo bianco e il tappeto porpora vecchio di anni.

Lascio ad un uomo un mazzo di fogli stampati, non dico nulla.

“Non dovevi passare lunedi mattina?” mi chiede l’architetto

“Recentemente ho deciso di giocare d’anticipo, ti risparmia un sacco di problemi…” gli rispondo.

Ci salutiamo, nulla di particolarmente cortese, non ne abbiamo voglia. Nessuno dei due.

Esco, di nuovo al freddo ma è ancora presto per tornare a casa.
Oltre i portici le macchine scorrono a velocità rallenty. Andare in macchina a Varese non è molto dissimile da fare un aperitivo in centro il venerdi sera. Compressi, tutti attaccati, non ci si riesce a muovere ne a parlare. Fare un ordinazione è come strombazzare con il clacson. Sei nervoso e sai che non ti stai divertendo.
Camminando mi ritrovo nel centro “storico”, dove negozi di lusso si affiancano a quelli ortofrutticoli, in un bellissimo contrasto tra superfluo e necessario anche se di questi tempi, non si capisce più se la differenza tra i due mondi sia concreta o solo immaginaria. Tra una borsa di Hermes e un chilo di pere arrivo al tempio della musica, la Casa del Disco. Mi piace quel posto; è caldo, c’è gente che ne capisce e vendono ancora i vinili che per la mia collezione non bastano mai. Faccio un giro disinteressato tra il bancone delle novità…vorrei buttarmi a caso, su gruppi con nomi intriganti ma la verità è che non mi fido, e finisco ad ascoltare sempre le stesse cose. Ma ecco che dalle casse, esce un suono: bello, unico, 20 secondi soltanto e sono già conquistato. Non mi serve altro. Ci sento dentro i Dave Matthews, ci sento dentro Cherry Ghost, ci sento dentro i Gomez.

Corro al bancone

“Chi è che suona?”

“Chiedi al ragazzo con i capelli rossi”
mi risponde il proprietario.

Devo chiedere a Tom. Non si chiama davvero Tom, ma è uguale al cantante dei Radiohead…quindi lui è Tom, e sono sicuro che l’accostamento non gli dipiace.
E’ vestito con un maglione largo il doppio di lui, capelli cortissimi rossi, barba rossissima. Non ha una chitarra in mano, peccato.

“Ciao…come si chiama questa band?”
gli chiedo indicando le casse.

Sorride

“Guarda…è un gruppo inglese…sta avendo un sacco di successo in Inghilterra e adesso anche in America, poi l’album è veramente bellissimo…e tral’altro…”

Smetto di ascoltarlo e gli dico

“Lo prendo, mi fido”

“Non ne abbiamo di chiusi…solo quello nel lettore…”

Perfetto. Lo stesso cd da cui è uscito quel suono di cui mi sono innamorato al primo ascolto, non una copia, non un sosia, quel cd, usato chissà da quanti giorni, con la copertina buttata in un cassetto. Quando provi qualcosa per la prima volta, quello è il momento giusto e perfetto. Ed è quel cd, unico, che mi ha conquistato. Una copia sarebbe andata bene uguale forse…ma c’è un emozione diversa, sottile, mentale, inspiegabile.

Lo compro e sono felice. Mi avvio verso il pullman e sono felice. Entro dentro e litigo con la macchinetta sputa-biglietti.

Il conducente mi urla “Non da resto”

Io gli urlo di rimando, “Non da neanche il biglietto”

“Fregatene!” mi risponde. Mi siedo in silenzio, ho parlato già troppo. Non si parla al conducente a meno che tu non sia donna, perchè in quel caso si trasformano, e sono sicuro che se potessero verserebbero pure calici di vino mentre guidano con una sola mano.

Mi siedo, ancora felice, nelle cuffie Ryan Bingham canta

“And this ain t no place for the weary kind
And this ain t no place to lose your mind
And this ain t no place to fall behind
Pick up your crazy heart and give it one more try”

Apro il sachetto e tiro fuori una “cornice” di plastica. L’immagine in copertina mi ricorda tanto i lavori del mio mentore, Michael Eastman. Rimpiango un po’ la nuova tecnologia; anni fa avevo il mio ingombrante, poco funzionale, ciuccia-batteria, esteticamente orrendo lettore CD portatile. Ora lo rimpiango, perchè mi perdo un pezzo di magia non ascoltandolo subito come vorrei, mentre viaggio.

“Mumford & Sons…”

Il nome dell’album è appena sotto.

“…Sigh No more”

Sorrido.

Grazie del consiglio amico mio.