Fino a poco fa non avevo mai visto Civitanova Marche immersa nella nebbia.
Esco dall’ufficio alla solita ora e con un po’ di forza scarto la pizzeria che mi invita ad entrare col suo odore di cipolla. Io me la mangerei volentieri una pizza, ma sono mesi che non muovo un muscolo e se voglio tirare un buco della cinghia devo sacrificare qualcosa. Dall’angolo spunta un giubbettino di pelle tutto distinto e aderente. La tipa, una signora credo, neanche si accorge di me impegnata com’è a parlare con la donna che ha di fianco. Poi ad un tratto si gira sentendo i miei passi poco dietro ai suoi, è giovane. Mentre le supero la sento parlare di trenta pagine da studiare. È più che giovane, e l’altra è la madre. Ho voglia di dirle che può anche evitare, che tanto studiare, qualsiasi puttanata le abbiano dato da studiare, è inutile considerando l’arco di una vita.
Non mi rendo veramente conto della nebbia finché non entro in macchina, i vetri sono tutti appannati e faccio fatica ad uscire dal parcheggio con tutte quelle macchine che circolano per strada.
Il lungomare è qualcosa di irreale, come se la schiuma delle onde si fosse dispersa nel cielo, e il viale sembra una linea senza fine colorata dalla luce arancione dei lampioni che si stende sull’orizzonte come l’olio su una tela. Imbocco la traversa solo perché so dove dovrebbe trovarsi.
Attraverso la via e sbuco alla rotonda mentre la nebbia si fa sempre più densa. La vedo condensarsi in nuvole di fumo che galleggiano sul manto stradale. Guardandomi intorno tra quei contorni incerti e sfumati mi sento stranamente solo in mezzo al traffico dell’ora di punta. Ma non solo nel senso di perso e isolato, solo nel senso di libero. Mi sento una specie di dio che vaga nel mondo che si è creato. Il mio piccolo mondo. In mezzo a quel vuoto apparente mi sento dio di me stesso, finalmente padrone della mia vita, senza dover rendere conto a nessuno, senza preoccupazioni, senza pensieri, senza più vincoli, senza la paura di deludere chicchessia. Solo e libero, mentre I Wish You Were Here si avvicina al finale, e io canto il ritornello a squarciagola, protetto dalla nebbia che mi nasconde dagli sguardi violenti del mondo. Canto e penso alle persone di cui non ho più bisogno, perché non averne bisogno non significa non volerle nella propria vita.
Quando arrivo in superstrada la nebbia è ancora più intensa, guido a memoria con l’esperienza maturata in anni ed anni di Mario Kart e F-zero. Disturbi nel primo, velocità nel secondo.
Sono in corsia di sorpasso, più veloce di quanto dovrei andare, non si vede un acca e c’è comunque lo stronzo dietro che lampeggia, lo lascio passare, è una golf. Come ti sbagli.
La strada sembra un lamento tale e quale a quello della chitarra di Shine On You Crazy Diamond, non riesco a distinguere i mezzi che sto per sorpassare fino a quando non gli sono di fianco, macchine che sembrano furgoni, furgoni che sembrano camion e camion che non sembrano niente.
A momenti salto la mia uscita, non si vede più nulla, neanche la luce di posizione delle vetture che seguo. Mi immetto nell’ultimo rettilineo, quello verso casa, quello veloce, sembra che più si va avanti e meno si vede, mi sento come se anche io, padrone e dio solo pochi minuti fa, stia per essere cancellato dalla nebbia. Supero il passaggio a livello, quello perennemente chiuso, sono sicuro che lo sia anche questa volta e che ci sono passato in mezzo solo perché la nebbia lo ha reso inconsistente.
Mi fermo al semaforo, l’unica cosa che ancora resiste alla desolazione del nulla. La canzone sta per terminare, il pianto del sintetizzatore si sposa perfettamente con l’atmosfera che ho intorno.
Riparto, giro all’incrocio e sono già dentro al mio garage, proprio nel momento in cui finisce la canzone, come fosse stato tutto un sogno.
La luce dei fari e prepotente e viva contro il muro del box, la nebbia è rimasta alle mie spalle, e io sono ritornato ad essere prigioniero della mia vita.