Sono sul balcone di casa mia, oggi non lavoro. In sottofondo la musica di “Chronos” mi tranquillizza e il sole mi scalda. Chiudo gli occhi e riesco ad associare ogni immagine del film alla sua musica. Adoro “Chronos” perchè riesce a darmi sollievo quando il cervello è pieno dei soliti pensieri che non mi danno tregua.

Al momento, con il sole in faccia, quella musica fantastica e gli occhi chiusi, immagino di volare sopra una città bianca, con le nuvole che scorrono veloci in un cielo azzurro, le ombre delle nubi che scuriscono per qualche istante i marmi bianchi dei grattacieli, quelle strade nere con chiome verdi che spuntano per colorare l’asfalto di tanto in tanto.

Immagino di camminare fra quelle strade, vuote. Solo qualche foglio di giornale che segue le linee del vento, una brezza estiva che sa di salsedine. Di fronte, una lunga strada nera porta fino al mare. Saranno almeno tre chilometri ma sento distintamente il rumore delle onde che si infrangono sugli scogli, l’eco dei gabbiani che rimbalza tra le mura candide di quelle enormi costruzioni, la musica del vento.
Continuo a camminare, e noto che la strada è leggermente in salita ed è sorretta da enormi tiranti di argento, come se fosse un ponte sospeso. I cavi si perdono nel cielo quasi come se un oscuro burattinaio lo tenesse in piedi solo per me. Continuo la mia marcia fino al porto. Gigantesche gru alte 300 metri, rosse e arancio, tengono sospesi blocchi di acquamarina trasparente. Noto che la città è disposta lungo la baia, talmente ampia che non ne vedo la fine. Un enorme scalinata di marmo nero, curva come la baia stessa, porta dalla strada direttamente all’acqua, senza spiagge di sorta, e migliaia di “spine” d’oro, alte più di quattro metri, sono conficcate lungo l’ultimo scalino. Guardando meglio noto che sono aghi, e corde di millecolori intrecciate sono infilate nelle crune. Per istinto so che servono per tenere legate le imbarcazioni ma non ci sono navi attraccate, solo enormi sfere bianche che galleggiano inoperose sulla calma superfice del mare. Provo a dare una spinta ad una di quelle sfere dopo averla slegata e quella dolcemente, parte verso il mare aperto, senza uno spruzzo, solcando appena lo specchio d’acqua, illuminando il mare di una fioca luce ambra. Pochi minuti ed è sparita all’orizzonte. Proseguo lungo il porto, una scalinata di tek sbiancato con un corrimano di ferro nero, mi porta sopra una piazza altissima, piena di alberi e panchine.

Un uomo anziano, completo grigio, cappello e bastone, butta del mais per terra, uno stormo di gabbiani lotta per quei pochi semi gialli.

Alza la mano. “Ciao!” mi grida

Mi avvicino “Salve…”gli rispondo

“Era da un po’ che ti aspettavo, ce ne hai messo di tempo, diversi anni…”

“Cos’è questo posto?”

“Questa è casa tua!”

“Come casa mia…io ho solo chiuso gli occhi, sono sul balcone della mia vera casa…questa è solo la mia fantasia…”

“Appunto…casa tua…non dirmi che ti senti a casa tua in quel posto…in quel mondo dove soffri, hai amato e perduto, ti senti solo, perso nelle maree di eventi, dove vai avanti a tentoni senza certezze, dove non vedi via di fuga, in un grigio infinito…”

Prende dal sacchetto una manciata di chicchi di mais.

“Guarda…”
mi dice.

Li lancia in aria e quelli si trasformano in sfere cromate, che riflettono il blu del cielo e quelle nuvole cosi veloci, gli alberi, i gabbiani, il mare e tutti i candidi grattacieli che fanno da anfiteatro alla piazza.
Una sfera si avvicina a me, il mio volto è distorto dalla curvatura, ma vedo che sorride. Alcune piastrelle della piazza, con un buffo rumore di vapore, cominciano ad alzarsi, come pilastri. Da quei corpi, fuoriescono rami di ceramica e foglie di vetro. Il cielo si fa nero e minaccioso, rombi di tuono e pioggia. Il sole sparisce ed un enorme luna emerge, riflettendo la sua luce attraverso quelle foglie, illuminando tutta la zona di un verde smeraldo.

“Vedi…” continua il vecchio, sempre seduto sulla panchina anche se ormai la piazza è diventata un giardino sintetico, “…tu sei nato per questo, solo per questo. Quando sarai stanco di trascinarti, sprofondare sempre più giù, soffrire per amore ogni minuto della tua vita, guardare alla vita con un filtro nero, basta tornare qua…alla fine te l’ho già detto, questa è casa tua”

All’improvviso, come per magia, siamo al tramonto. Un enorme doppia spirale bianca esce dal mare con un rumore simile ad un fischio acutissimo e mille spruzzi. In cima, una sfera blu comincia ad emanare fasci di luce verso il mare, e centinaia di sfere arrivano al porto, ognuna di colore diverso. Uno spettacolo surreale che quasi mi commuove.
Il vecchio, che nel frattempo si era alzato, appoggia una mano sulla mia spalla dicendo dolcemente “Qui, non c’è limite a cosa puoi fare, a cosa puoi sentire. Vale la pena tornare in quel mondo marcio, e lottare per nulla?”

Ci penso ma so già la risposta.

“Nella vita non si lotta mai per nulla, si lotta sempre per qualcosa o qualcuno a cui tieni veramente. Anche se non la potrai mai raggiungere, anche se l’hai persa, anche se non hai quasi più speranza, anche se soffri come un cane…non importa, quello che vogliamo spesso non ci potrà mai rendere felici. Quello che vogliamo spesso ci fa solo soffrire ma alla fine, è l’unica cosa che ci fa davvero sentire attaccati alla vita”

Il vecchio mi sorride ancora “Bhe…allora lotta…”

Apro gli occhi, Chronos è ormai quasi finito, sento la musica delle ultime deliranti scene notturne. Il sole è ancora caldo, e io sono di nuovo qua, seduto sul balcone.

Non sono una persona che desidera ricchezze, ne fama o successo. Lotto per cose semplici ma essenziali. Lotto per cose che ho perso e che rivoglio indietro disperatamente. Alla fine sono uno dei pochi fortunati che alla domanda “Cosa voglio?” può darsi una risposta.

Solo che c’è anche la paura, quasi la certezza, che alla fine della lotta non rimanga davvero nulla, ma forse, anche il solo averci provato, non darà solo malinconia, tristezza, solitudine. Un seme verrà piantato e quello crescerà in qualcosa che nemmeno sapevamo di volere…forse.