Inizio questo pezzo senza avere idea di quello che voglio esprimere o di dove andrò a finire. Non ho chiaro quello che voglio comunicare perché non mi è chiaro quello che mi è stato comunicato. La Scarzuola è un posto fuori dal tempo e dallo spazio, è uno squarcio nella materia, una parentesi asimmetrica nella simmetria del flusso del nostro tempo. La Scarzuola è una rappresentazione dell’esistenza, dell’essere, del mortale che diventa divino, e del divino che torna mortale, o questo è quel poco che m’è rimasto delle parole pronunciate dalla guida, decisamente poco lucida, o forse fin troppo. Tra la “scarza”, luoghi comuni, e tesi complottistiche a livello di quelle di un qualsiasi contenitore pomeridiano domenicale, si parte da un anfiteatro dove è rappresentata una barca dai significati più disp(a/e)rati ma di cui mi ricordo solo che le poppe erano a prua, e si scende a spirale in senso antiorario, intraprendendo un cammino solitario (o così dovrebbe essere) verso la ricerca di sé stessi. Io non mi sono affatto trovato: anzi, mi sono perso. Mi sono sentito piccolo piccolo e al tempo stesso ho percepito la grandezza dell’uomo e delle sue opere, quando vive fuori dagli schemi. Ho pensato che dovremmo farlo tutti, o almeno darci la possibilità di farlo. Non voglio essere più un numero da statistica. Non voglio essere il dipendente che dichiara più dell’imprenditore, non voglio essere il giovane sfiduciato dalla politica, né il cervello che emigra all’estero. Vorrei essere una scheggia impazzita, una mina vagante, vorrei poter sfuggire alle maglie del conformismo. Vorrei poter riuscire a spogliarmi di tutto quello che la società mi ha messo addosso e cominciare un’esistenza nuova, una che dia un senso a tutto quanto. Vorrei partire, senza metà, alla ricerca di posti come questo, di sui sono sicuro sarà pieno il mondo. Un posto che mi ricordi ancora una volta di quanto siamo straordinari, liberi da imposizioni. Siamo scesi ancora verso la nostra coscienza, rientrando nell’utero materno, dove nascono anche le religioni, fino ad arrivare al nostro cuore, luogo di pensiero, nirvana e catarsi: una circonferenza di mattoni e un cipresso folgorato da un fulmine nel mezzo. Chiusi fuori dal mondo, siamo esseri straordinariamente semplici. La natura, il sole in faccia e le persone attorno. Niente di più, niente di meno. Niente che non serva, niente che ci distragga. La perfezione non è quando non puoi più aggiungere nulla, ma quando non puoi più toglierlo. Finalmente perfetti.
Vorrei essere tutto questo, ma son passate solo poche ore da quando siamo usciti da quel luogo frutto di un visionario, forse di un pazzo, e ora che sono di nuovo in strada sul piede torno a sentire il peso della macchina, sullo stomaco il peso del pranzo, e sul cuore il peso delle cose che non vanno come vorrei. Sono conformismo, sono statistica, sono un cervello che forse dovrebbe migrare all’estero. Sono il posto fisso e le rata del mutuo. Sono la macchina nuova, il giovane che paga la pensione al vecchio, il precariato, l’impiegato diligente che si realizza nel lavoro. Sono i mobili di Ikea, la spesa il sabato pomeriggio, la benzina a due euro, il governo tecnico e il tabù dell’articolo diciotto. Sono il risparmio energetico, i giorni di ferie, le cene fuori, il cinema. Sono il costo del denaro, il buco nell’ozono e lo scioglimento dei ghiacci. Sono il cittadino modello, la dichiarazione dei redditi, e la raccolta differenziata. Sono un ammasso insignificante di strati inutili, complicazioni, burocrazia e pregiudizi, che mi distolgono dall’unica cosa che conta, ovvero la certezza di essere straordinario. E’ che sono troppo carico per riuscire a dirti chi sono veramente, troppo carico per riuscire a dirti chi sei veramente.
Sono troppo carico, e domani ricomincia un’altra settimana che mi caricherà ancora di più. Fino a seppellirmi. Spengo la macchina e mi conforta solo una cosa, magari non è un caso che l’ultima canzone faceva “Madre partoriscimi rincomincio a vivere”.