Ennesima mattina di lavoro che tristemente non è ancora abbastanza, prendo le chiavi da sopra il pianoforte antico che uso come armadio, dispenser, portagioie e migliore amico e la prima riflessione profonda che le mie sinapsi costruiscono è sull’incredibile capacità di quei pezzi di metallo di incastrarsi dentro anelli e portachiavi oltre che ancorarsi con invisibili ganci e punte a centrini ricamati vecchi di un secolo. Utilizzo la sacra tecnica del moto ondulatorio sbrogliatore, in pratica ‘agitare violentemente tenendo il mazzo per la chiave che ti serve’, scuotere con forza estrema, digrignando anche i denti se necessario, finché non si sente il tintinnio stile ‘mille grilli che rompono i coglioni a mezzanotte d’estate in aperta campagna’. A quel punto, con la mano ferita, perché è inevitabile, posso anche chiudere la porta.

Ma certe abitudini sbagliate non spariscono mai, come infilare le chiavi in tasca istintivamente.

Non sento ancora abbastanza freddo da mettermi la giacca, ho giusto un maglioncino verde che mi sta grande e un paio di jeans con due tasche, entrambe occupate. Ah! Benedetti gli smartphone che fanno tutto, è vero, ma io ho ancora la fissa per l’Ipod, che ci posso fare? Se ne sta li nella tasca destra, mentre il telefono intelligente ma con il proprietario stupido se ne sta a sinistra e qui, secondo i fisici di quelli che non si caga nessuno, emarginati alla Doc. Brown, considerati dei pazzi, l’universo si scinde, si crea una realtà alternativa dove c’è un bivio, una scelta, oppure, come nel 97,3% dei casi, una cazzata; metto le chiavi nella tasca destra per riflesso, come sempre, perché è vero che sono ambidestro ma lo nascondo utilizzando quasi sempre la mano non-sinistra per non spaventare con le mie doti i miei tristi non-simili.
Nello stesso istante in cui le chiavi cadono in quell’oscuro reame conosciuto come tasca, qualcosa di chimicamente magico avviene, nasce un amore passionale tra l’iIpod e il mazzo di chiavi. Si trovano, si innamorano, si accoppiano. Grovigli blu e grigi si formano, flessuosi pezzi di plastica e rigide stecche di metallo trovano cose in comune, in una specie di unione di opposti, Yin, Yang e cinquanta sfumature di grigio-cobalto.
Quando mi accorgo di quello che ho fatto, sono cinicamente meno romantico di quanto la situazione esige e maledicendomi come ogni giorno con le stesse parole, tiro fuori quell’ammasso ormai senza senso, che assomiglia ad un detonatore artigianale di Al Quaeda. Mi dico che le chiavi avrei dovuto metterle a sinistra, cosi avrebbero trovato la loro nemesi, il cellulare, entrambi protagonisti di un’eterna lotta e anche quella volta avrebbero combattuto ma dividerli sarebbe stato più facile in quella nuova ipotetica realtà parallela. Avrei maledetto per un istante i segni della violenza sul vetro e su quella plastica lucida, che fa apparire tutto più bello e lussuoso e mi sarei tenuto un cellulare rovinato dalla mia non curanza, simbolo estremo del mio stile di vita fatto di cicatrici, maldestria anzi, ambimaldestria. Ci avrei ripensato poco dopo, contraddicendomi, forse per convincermi non lo so, andando in giro fiero perché io davvero le preferisco rovinate le cose e le persone, più riconoscibili, più interessanti, con qualcosa da dire e impaurite, paranoiche, folli, alienati come me, che amo le rovine perché mi fanno sentire meno solo.
Da Galassia Pensieri ritorno sul concreto Pianeta Terra a velocità anima e osservo quello strano oggetto che tengo in mano. Minuti per sbrogliare quel casino con chirurgica minuzia visto che il moto sbrogliatore non è utilizzabile in situazioni estreme e mi sento un artificiere come in ‘The Hurt Locker’. Minuti che perdo sull’orologio, per l’ennesimo ritardo mattutino che tanto anche in ditta hanno capito che non mi devono rompere il cazzo sul tempo che perdo , che possiedo e spendo come voglio.
Estirpo le chiavi dal groviglio, e da qualche parte, forse nel mio cervello, sento un ” Noooooo” di disperazione che sa di amore spezzato. Gli auricolari sono ormai una matassa informe, con nodi impossibili da riprodurre scientemente e non ho nessuna voglia di addentrarmi in quel labirinto di follia che il cubo di Rubrick a confronto sembra un puzzle di quattro pezzi anche se giace li, immobile e rassegnato a sostenere la lontananza dal mazzo di chiavi, meditando triste e ripetendo tra sé e sé “Solo altre 24 ore…”,

Davanti a quella vista, percepisco una grande dimostrazione del caos dell’universo e che noi di quello che ci circonda non ci abbiamo mai capito nulla.

Davanti a quella vista, ho una faccia che è cinquanta percento disgusto, cinquanta percento divertita, e un cinquanta percento rassegnata al fatto che il centocinquanta percento di un qualsiasi qualcosa non esiste ma dovrebbe, per vivere meglio.

Quando mi lavo le mani in un bagno pubblico ad esempio, se ho il coraggio di entrarci…sapete quei sbuffa-aria calda, che accendi premendo il pulsante con il gomito perché ti fa schifo, non capendo che dovresti farlo con la porta del bagno piuttosto…bhe, li un 150% lo gradirei, una benedetta volta e mezza di aria calda in più.
Ho fatto dei test senza alcun fondamento scientifico, calcolando i secondi a mente, girando le mani secondo 54 gradi di libertà, avvicinandole al bocchettone, ruotandole innaturalmente al limite del distacco radio-ulna ma non c’è modo che io riesca ad asciugarmele completamente al primo giro. Quindi premo l’odiato pomello una seconda volta finché le mani sono bene asciutte ma quello continua a sbuffare aria e adesso sento troppo caldo, le mani bruciano quasi, quindi esco dal bagno, con l’aria calda che ancora inonda quel postaccio, ormai un rumore alle spalle lontano, prima di spegnersi, a secondo giro concluso.

‘Una’ è troppo poco, ‘due’ sono troppe, mi serve il 150%, l’‘unavoltaemezza’, è chiaro.

Nelle cose e nelle persone.

Ridatemi le mezze misure.