Scendo dal treno, a Milano. Non ricordo che tempo ci fosse, ma ricordo bene il giorno, il 18 Gennaio 2010.
Ero pieno di non-umore, quello stato in cui non hai pensieri ma solo morse allo stomaco, senza idee ne piani. Agisci senza sapere cosa succederà quel giorno, perché non dipende da te.

Stazione, gente che sembra quasi che vada il doppio di te e che quasi ti passa attraverso, scale che da quattro giorni calpesti continuamente su e giù e di cui ormai riconosci anche le macchie di sporco negli angoli dei gradini, il pavimento gommoso disseminato di cartacce, liquidi e persone.

“Scusa…”

Ha i capelli rossi e un accento strano, particolare; come un italiano parlato male da un italiano oppure un italiano parlato bene da uno straniero…lo sento e penso a Vienna. Non so perchè.

“Scusa…” ripete “…sai come fare il biglietto della metro? Devo andare in Stazione Centrale…non so come fare…”

Le faccio il biglietto. Potrei dire ‘carina’ ma non la ricordo, in mente c’è solo quel rosso e quell’accento, una valigia e del tessuto scozzese. Magra.

“Dove devo andare ora?”

“Ti ci porto io”

Nella metro non le dico nulla, lei non mi dice nulla, il viaggio è silenzioso. La mia tabella di marcia semplificata, con l’unica cosa che dovevo fare quel giorno è già sconvolta. Qualche fermata ed arriviamo.

“Sai…sono venuta qua per questa conferenza, sono due-tre giorni che giro in taxi, ora devo tornare a Genova e mi sono trovata un po’ spaesata…”

“Capisco… “ allungo la mano e le dico il nome, presentandomi. Mi sembrava il caso, mi sembrava giusto, lei mi dice il suo.

La biglietteria è un luogo strano: file di seggiolini ancorate ai muri, porte di vetro con maniglie in alluminio e quel silenzio rumoroso, fatto di colpi di tosse leggeri, voci tristi e dimesse, frasi dette sospirando e il rumore lontano della gente che cammina, all’esterno. Sembra che ci sia fumo ma è un’illusione, forse è la luce tenue che attraversa le tende e che si scontra con la polvere. Forse è la mia stanchezza di due giorni insonni. Forse è solo un parto della mia mente e la biglietteria era del tutto diversa.

Cammina verso di me, mentre io ancora osservo la gente in file ordinate, con meno bagagli di quanto immaginassi quasi come se non dovessero davvero partire, ma solo chiedere informazioni o parlare con qualcuno.

Cammina verso di me ed ha in mano il biglietto per Genova, sorride, ed è la prima volta. Un bel sorriso imperfetto.

Cammina verso di me e mi raggiunge, dice che il posto è numerato e anche la carrozza. Troviamo il binario e il treno e l’aiuto a tirare su la valigia, manca poco alla partenza…mi prende la mano e mi da un bacio

“Grazie…”

Il treno parte. Temporeggio in quella stazione ancora per qualche minuto, mi guardo in giro. Poi me ne vado

Due anni dopo a volte ci penso.

Che magari su quel treno lei abbia trovato l’amore ed ora forse ora ha dei figli e gli racconterà di come ha conosciuto suo padre nel posto di fronte a lei. Forse è arrivata a Genova, e ha raccontato di quei tre giorni a Milano alla sua migliore amica, a sua madre o a suo fratello e ci sono anch’io in quella storia quando la racconta. Una piccola storia di quella mattina in cui ci siamo incontrati.Quando ci penso,  sento come se facessi parte di un’altra vita, tassello di un qualcosa a cui non appartieni ma in cui hai lasciato una traccia.

A volte penso che magari la sua vita sia cambiata solo per aver preso quel treno quel giorno e adesso è felice e faccio parte di quella felicità, in qualche modo. Forse anche la mia vita è cambiata.

Tutto in un ora.

Non so, credo sia bello.