Faccio spesso degli incubi. Anzi, è sempre lo stesso, uno solo. In questo incubo sono in un cubo. Incubato in un incubo. Ho cercato di trovare un senso a questo sogno, ho pensato che il cubo dovesse rappresentare qualche cosa. Perché proprio il cubo? Forse perché è una figura semplice, fatta solo di facce e di spigoli. Forse rappresenta me stesso, le mie sfaccettature, i miei angoli bui, quelli in cui mi nascondo o nascondo il resto del mondo.
Quegli angoli della mente che non riposano mai, neanche di notte, neanche quando dormo. Perché è proprio di notte che io mi faccio più lucido. È di notte che divento più sveglio. Di notte mi prende senno, divento assennato.
E’ di notte che si fanno i conti con la proprio coscienza. Ma mai fare i conti con la propria coscienza, mai, mi avevano messo in guarda dalla coscienza. Ci sono almeno due buoni motivi per non farlo, e il primo è che secondo terzi è un quarto grado parlare alla propria coscienza. È come un’interrogazione senza materia. La coscienza infatti non ha materia.
Meglio evitare, meglio svegliarsi e occupare la mente. Devo riempire la mente, mi serve qualcosa per riempire la mente, qualcosa di grosso, di spazioso, almeno come un locale. Ecco, mi serve la mente locale. Faccio mente locale e decido di alzarmi.
Vado al pc per scrivere tutto, ma il mio problema è che mi distraggo facilmente. Faccio cento cose tutte insieme. Scrivo mentre leggo, mentre cerco musica, mentre guardo la tv, mentre controllo il telefono, mentre penso a lei. Praticamente un malato di mentre. È per questo che poi non raccapezzo niente e mi tormento. Sono un’anima errante io, faccio così di errori.
Sullo stereo sta andando “Shine on you crazy diamond”, ma mi serve qualcosa di più voluminoso così metto “One of these days” e alzo a tutto.
E si fanno le otto di mattina senza che abbia concluso niente, decido di uscire, ma prima faccio colazione e lavo i denti. Con la nuova formula denti più bianchi fino al trenta percento in più, pulizia più profonda e senso di freschezza per tutto il giorno. Non è dentifricio questo, è mentifricio.
Avrei voglia di andare in bici, avrei voglia di libertà, di primordialità, la bicicletta è il mezzo di trasporto più elementare che c’è. La bici è l’abc degli spostamenti. Avrei voglia, ma prendo la macchina che voglio fare due passi al mare e la strada è lunga.
Bello passeggiare al mare, ci manca solo lei, e allora quasi quasi la chiamo. Le dico dai, vieni a fare un giro al mare che poi ti riaccompagno a casa. La vedo spuntare all’orizzonte. Vento, sole e mare. E’ tutto così bello vicino al mare, tutto così fresco, tutto così profumato, sfumato. Lei vestita da mare, tutta da mare, tutta d’amare. Le parlo d’amore, le parlo di more, e passano i minuti e passano le ore. Il sole sul filo dell’acqua, il mare che diventa una tavola eppure non ci puoi fare surf. La gente diserta, la spiaggia deserta, la donna coperta: me la metterei volentieri addosso. Gli ombrelloni oramai chiusi come fiori. L’una, solo io, lei, la luna che sale, la sua bocca di sale, rimango di sale. Un bacio, un solo bacio.
E’ tardi, la devo riaccompagnare, saliamo in macchina ma mi è preso un colpo di senno. Devo fare una sosta. Lì c’è una piazzola ma non voglio che pensi male. Vorrei fermarmi a riposare un momento, ma non posso farla dormire in macchina. Mi faccio forza, mi dico di non sostare con lei, anche se non so stare senza di lei.