Chiedo ad una ragazza di uscire con me. L’avevo già fatto nel gennaio duemilatredici e come allora, non mi interessa un granché la risposta.

Ai tempi ero stato liquidato con un “non adesso, ho da studiare, ho esami” e altri blablabla. Mi chiedo se adesso la risposta sarà “non adesso, ho da lavorare, da allenarmi, da vedere quella serie tv che tanto mi piace” e altri blablabla che virtualmente occupano ventiquattrore piene di energia al giorno, al punto che gli altri o almeno “me” non sono contemplati.

In realtà non sono convinto perché tanto non c’è scintilla, e io seguo solo quelle o razzi segnalatori ed esplosioni. Non riesco mai ad aspettare una persona, conoscerla e valutare. Sempre amori intensi o non corrisposti, assoluti e al limite del patetico, tragici come un poema di Shakespeare perché se no non hanno senso, non sono abbastanza. Ecco perche piango in “Pearl Harbour” e “Forrest Gump”, rispecchiano il “finché morte non vi separi troppo presto”, una costante della mia vita. Infatti, dopo un po’, quasi vicino alla quadratura del cuore  le cose iniziano a bruciare, fiamma alta venti metri colore blu cobalto e quello che rimane è solo una pioggia di cenere così bianca che pare Natale.

“Mha…”

Mentre penso, svestendomi, rispondo a mia madre dicendole che si, andrò a messa questa mattina, che è domenica. Lei esce, io entro in vasca, dove penserò, scrivendo mentalmente bellissimi inizi di romanzi che rimarranno incompiuti, pensando a lei, a lei e me e infine a me e basta, con rimorsi, rimpianti e anni buttati da ricordare. Non ci vado a messa in realtà, a mia madre mento sempre da un po’ di tempo. Qualcuno mi da del debole per questo, che ho l’età di poter fare quello che voglio senza preoccuparmi degli altri, che se voglio posso tatuarmi come desidero, bestemmiare come desidero, scopare senza sentimento qualsiasi ammasso di carne che riesca ad intortare, fottere il prossimo, spillare soldi, lavorare meno e guadagnare di più facendo il furbo, incurante delle lacrime che sgorgano sulle guance di chi mi sta di fronte, dei loro pensieri, delle loro domande e delusioni, dei loro “dove ho sbagliato, che ne è stato, dove l’ho perso”.

Sembro costretto ad immergermi nel loro cinismo estremo, nell’egoismo, come se fossi abbandonato in una giungla e quello fosse l’unico frutto disponibile. Dovrei non fregarmene delle sofferenze degli altri, del dolore che posso procurare, in una specie di lotta tra highlander in cui ne rimarrà soltanto uno, perché gli altri di me non si curano, che non gliene importa un cazzo se ti feriscono a morte, come se fosse una giustificazione per fare altrimenti, spronato ad affrontare la vita con un’ascia dietro le spalle, tenuta nascosta.

Ma perché dovrei fregarmene?

Per un po’ci ho provato ad incarnare l’egoismo e il cinismo, pubblicizzato come il perfetto antidoto per il mondo che ci circonda. Ma mi sono accorto che non mi voglio bene abbastanza per essere così, a stento mi sopporto. Mi piacciono di più quelli che mi stanno attorno, soprattutto quando mi fanno sentire meno solo.

Perché dovrebbe essere meglio fregarmene, se sono tristi o pieni di problemi? Io li preferisco quando mi sorridono.

A volte penso che chi mi consiglia il cinismo, non sopporta avere a che fare con gente come me.