Quando guardo un concerto di una cover band non riesco mai a non pensare all’ipotetico dramma esistenziale che ci sta dietro.

Ho davanti un sacco di gente che balla e che canta insieme a me, alza le mani, la incito e lei risponde. Di quel cantante famoso io imito la voce, mi vesto come lui, mi muovo come lui e pure i capelli sono uguali. La gente dice che gli assomiglio davvero e i miei amici mi chiamano “Liga” o “J-Ax” o “Bon Jovi” o “chicazzotipare”. Sono soddisfatto di quel nomignolo, ce l’ho fatta ad essere come il mio idolo penso, le ore di canto per imitare la voce, look ricercato, farsi quel pizzetto orrendo perché nell’ultimo video “Lui” ce l’ha, tutti sforzi ben ricompensati.

Poi passa il tempo, la gente mi chiama per le serate qualche volta ma sempre di meno, spero di viverci finché a qualcuno ancora interesserà stare sotto un palco a sentire quella roba che magari viene fatta meglio da una band come la mia.

Tre anni dopo. Mi hanno annullato la serata. Ho guardato il cantante della cover band che hanno scelto al nostro posto, l’ho guardato faccia faccia ed è uno specchio solo vent’anni più giovane. Ora sono in un pub con gli altri che beviamo depressi una birra. Il bassista vuole chiudere, il batterista chiede perché non abbiate mai fatto dei pezzi nostri, il talento c’era.

Non lo so, mi chiedo come facevo ad essere felice per la gente che mi acclamava per canzoni non mie anche se pure io le adoravo. Acclamava “Lui” non me, io gli assomigliavo, ero un medium per raggiungere “Lui” e adesso mi ritrovo che non sono più così giovane, la band è allo sbando e io non so chi sono, perché ho vissuto una vita ad essere un altro.

A casa, vado in bagno, mi taglio il pizzetto, mi raso i capelli. In camera, guardo i vestiti sulla sedia e mi viene da vomitare, non sono miei, sono “suoi”. Rovisto nell’armadio di mio fratello, mi metto due stracci, esco.

Incontro un amico che stento mi riconosce. Alza la mano.

“Ciao…” e poi si ferma. Poi continua.

Usa il mio vero nome.

Io nemmeno lo ricordavo più.