“Ti sento”, si dice quando siamo in sintonia con qualcuno. Sin-tonia, in-tono, non come intonare, ma in tono, unione di toni. Ti sento, è una cosa da dire nei momenti più intimi della giornata, nella reciproca solitudine di una compagnia, occhi negli occhi, mano nella mano, respiro nel respiro. Nel silenzio della notte e nel chiasso dei pensieri o nella quiete del nulla, ti sento. Ti sento in contrapposizione al non sentirsi, al non sentire. Quando smetti di sentire non solo smetti di esperire, ma ti allontani, ti neghi, volti le spalle. Quando smetti di sentire dissenti. È per questo che non bisogna smettere mai di sentire. Quando smetti di sentire diventi singolare, e non intendo dire che diventi insolito o speciale, ma che rimani solo. Quando senti sei plurale, quando non senti sei singolare. Dal siamo passi al sono, e la gravità di questa condizione la si capisce tutta dalla coniugazione. Quando senti dici siamo e quando non senti dici sono.

“Siamo”, bisogna essere almeno in due, è in quel momento infatti che usi il siamo, perché lo usi verso le altre parti: “Sì-amo”. In mezzo agli altri dichiariamo l’amore per la vita. Sì amo, Sì sento, Sì vivo. Lo dici con gli altri, e per gli altri: quando “siamo” sai di amare, sai di vivere.
Quando non senti invece, o non c’è niente per cui sentire è tutto diverso, noioso, senza scopo, senza attese. E non sai più cos’è amare o cos’è vivere, sono cose che perdi di vista. Quando non senti, quando sei solo, quando arriva quel “sono”, sai di non sapere, e te lo domandi: “So? no”.
È tutta questione di coniugazione. Quando senti sei coniugato, perché siamo, e quando non senti smetti di sapere, perché sono.
Sentire per non dissentire, che sembra una cosa da poco e invece è tutto qui. Cedere all’antipatia o all’egoismo è un attimo. Bisogna distogliere certi pensieri. Togliere l’invidia, togliere il rancore, togliere la superbia, via, via tutto. Distogliere, pensare ad altro, a qualcosa di migliore, a qualcosa di positivo. È importante controllare quello che si pensa. Tutti vorrebbero controllare quello che si pensa, chi non vorrebbe? Controllare quello che si pensa di…, controllare quello che si pensa di…, tutti vorrebbero controllare quello che si pensa, anche se alla fine controllare diventa imporre. Una cosa è controllare e una cosa totalmente opposta è imporre, eppure chi controlla finisce sempre per imporre. Ma non era qui che volevo arrivare. Dicevo che i pensieri vanno controllati, perché i pensieri sono nel sangue, sono il nostro sangue, sono scritti nel sangue, ed è per questo che si chiamano pen-sieri.
“Ti sento”, dicevamo, un discorso concluso forse. Infatti discorso è passato, che poi come faccia a chiamarsi discorso… Se il discorso fosse veramente senza corso o non concorde non avrebbe senso, e a questo punto gli unici discorsi validi sarebbero quelli dei matti. Concorso non sta a discorso come concordia sta a discordia. Che ci sono certe parole che non si capiscono, tipo lametta, che si dice lametta e poi invece porta via. E il letto si chiama letto perché quando alzi la coperta sai già come va a finire? E perché il pane ancora caldo si dice fresco?
Non lo so, non lo so, non so più niente, forse perché non sento e sono.
State a sentire, provate a sentire, che è meglio.