Brava Giovanna, brava

Autore: Moment Pagina 1 di 9

IA

La casa di Stefano è controllata completamente da remoto. Un termostato intelligente sceglie la temperatura più confortevole, un sensore di umidità apre e chiude le finestre in base alla qualità dell’aria. Alle pareti non ci sono interruttori perché le luci si accendono secondo le abitudini di famiglia. Il forno scalda la pizza autonomamente e quando il frigorifero finisce un ingrediente lo segnala sul display incassato nello sportello di alluminio. Se abiliti la funzione, fa la spesa da solo.

Non ci sono librerie, a casa di Stefano, perché tutti i libri del mondo sono stipati in una cornice dove resteranno per sempre, dimenticati come foto mai sviluppate. Non c’è telefono, né citofono. La casa intera è un gigantesco microfono con il quale parlare con tutto il mondo pronunciando un comando. Non c’è un camino, non ci sono i radiatori, non c’è una cassetta degli attrezzi. L’unica cosa rimasta del passato recente sono i bidoni dell’immondizia, tutti in fila come soldatini appostati sul lato del vialetto d’ingresso, pronti a portarsi da soli in strada il giorno di raccolta. L’immondizia è l’unica cosa rimasta uguale perché l’uomo è ancora rimasto uguale. Quando l’uomo sarà libero dai bisogni del proprio corpo, quando non dovrà più nutrirlo, lavarlo, vestirlo, curarlo, l’immondizia smetterà di esistere. Oltre all’uomo, naturalmente.

Autunno

La parola autunno mi fa piangere. E penso che per piangere sulla parola autunno bisogna vivere in autunno. Ma non nel senso di essere ad autunno, ma di essere autunno. Bisogna ritrovarsi in autunno da autunno, per piangere l’autunno. Che se uno arriva in autunno quando si sente primavera o estate mica succede nulla. E immagino che se ci arrivi che sei già inverno, al massimo l’autunno lo puoi rimpiangere. Bisogna essere allineati dentro e fuori, due diapason sulla stesse frequenza. Bisogna risuonare con l’autunno per sentire certe cose.

Per capire che in autunno, se sei in una città di mare, i vestiti conviene stenderli dentro invece che fuori. Che le strade si spopolano, diventano grigie, e pure il sole diventa grigio, anche se fa tempo bello. Grigie sono le ombre, grigie sono le onde. Agitate, irrequiete, spietate. Si mangiano ogni cosa e risputano legna morta. Buona nemmeno per il camino di casa, che un po’ di luce invece la fa ancora.

Faccia di cuoio

Che ne sapete voi, con i capelli, cosa ha in testa una persona che li ha persi. Niente, appunto.

Io me lo sono chiesto come deve essere svegliarsi una mattina e rendersi conto che è finita, che non c’è più niente da combattere o preservare. Che l’unica uscita di scena dignitosa è la rasatura totale. Me lo sono chiesto come deve essere svegliarsi e accettare l’idea di non essere più quello che si è sempre stati. Rendersi conto, in realtà, che si è stati pelati da tutta la vita. È genetica: pelati si nasce, non ci si diventa. Ti svegli una mattina, magari a ventotto anni, o peggio ancora a venti (e non è che ci sia un età giusta per diventare calvi), per scoprire che non eri destinato ai capelli. Che tutti i tagli provati fino a quel momento sono stati solo una perdita di tempo. Ti rassegni, quel giorno, al fatto che non avrai più bisogno di un pettine, ma di un rasoio. Che tutta l’esperienza accumulata in anni di acconciature è andata a farsi benedire. Quasi come perdere il lavoro oltre ai capelli, praticamente cambiare mestiere.

Traguardi

In queste settimane siamo fuori con la promozione di “Marche d’Autore Vol. 4 – I traguardi”, un libro piuttosto incredibile perché raccoglie un numero spropositato di racconti (più di cento tra racconti e poesie) scritti da altrettanti autori.

Eravamo nella piazzetta di Castelbellino, che se si chiama Belvedere ce n’è motivo, e a turno presentavamo la nostra storia dedicata a uno dei tanti talenti marchigiani che per un motivo o l’altro meritavano di essere raccontati nelle pagine. Dai più famosi che conoscete tutti a quelli noti a livello locale, e che in ogni caso si sono distinti per cuore e risultati. Gente che quando la incontri ti viene voglia di parlare di loro. Gente in grado di ispirare altra gente, che poi forse è questa la cosa più importante dello sport e di qualsiasi altra forma di competizione. Così come di ogni forma di arte, tant’è vero che quando un artista non riesce più a creare si dice che gli manca l’ispirazione.

L’altro lato del tavolo

["Esordiente" è una brutta parola e gli esordienti sono brutte persone. Per farvi capire quanto sono brutte basta dirvi che partecipano ai concorsi. In questo bisognava continuare un incipit scritto dalla scrittrice e sceneggiatrice Valentina Capecci, che poi era anche la presidente della giuria del concorso. Sono stato pubblicato ma ho mancato la terzina vincitrice. Ha scoperto solo più tardi che sarei diventato il suo preferito 🤓. In blu l'incipit, in nero la mia continuazione. Avevamo a disposizione solo 5000 caratteri, incipit compreso.]

Apro gli occhi. Li tenevo chiusi ma non dormivo. Succede sempre così quando devo affrontare una giornata impegnativa, passo la notte in bianco. Il mio fisico mi rema contro, per farmi partire già stanco e meno lucido del solito, in modo da peggiorare la situazione. Oggi poi sarà determinante e, comunque vada, la mia vita potrebbe cambiare per sempre. Perciò preferirei che tutto filasse liscio.
Mi alzo dal letto. Doccia, barba, capelli con calma. Sono in largo anticipo, gli abiti da indossare li ho già preparati e, salvo ripensamenti dell’ultimo secondo, o la scoperta di una macchia imprevista, o il classico bottone che si stacca ruzzolando dove è impossibile recuperarlo senza smontare l’armadio, mi vestirò in un lampo.
Evito la colazione al bar, per non sporcare i denti. La sequenza giusta è biscotti, caffè e alla fine dentifricio e spazzolino. Il fluoro dopo la caffeina fa schifo, ma devo.
Pare che sono a posto. Lo specchio riflette l’immagine di uno che sa nascondere emozioni e insicurezze. Però lo specchio forse mente. Staremo a vedere.
Vado.

Tutte le volte che mi sono innamorato

Io ve lo descriverei pure quello che vedo, ma ho sempre avuto problemi con le parole. È una piazza, e nemmeno tra le più belle, diciamocela tutta. È grande, questo sì, ma bella non direi. Ne ho viste tante e posso affermare che le piazze crescono come gli alberi, o come i bambini: si sviluppano come possono, cercando di valorizzare quello che sono. Ognuna è diversa, cresciuta secondo la vita che aveva intorno. Ci sono quelle minuscole, quelle simili a dei chiostri, quelle in pendenza, quelle con i monumenti al centro, le fontane, i pozzi, gli obelischi. La maggior parte ha la chiesa su un lato, e in effetti c’è anche qua, anche se non tocca proprio la piazza. Il modo migliore per descrivere dove mi trovo è un grande parcheggio con i marciapiedi ai lati.

Forse potrei fare di meglio, ma ho sempre avuto problemi con la parole.

Fin da quando ero piccolo e mi chiedevano se avevo la fidanzatina. Mi si paravano davanti queste facce che vedevo una volta ogni tre anni e: “Ti ricordi di me?”

E io stavo zitto.

Venerdì Santo

[Qualche anno fa ho avuto la possibilità di scrivere per una raccolta chiamata Marche d'Autore. Il progetto era nato (e continua tutt'ora) per raccontare le Marche prima di tutto ai marchigiani. I promotori dell'iniziativa sono partiti con una raccolta dedicata ai luoghi, per arrivare con i volumi successivi ai personaggi, la cucina tipica, e prossimamente gli atleti. Questo di seguito è il racconto che ho dedicato a Raffaello Sanzio]

Venerdì Santo

Io e Raffaello Sanzio siamo così. Voi non lo sapete, ma sto facendo quel gesto lì, di unire le dita. I diti, avrei detto prima di diventare uno scrittore. Io e Raffaello siamo cresciuti insieme, io al mio civico, lui in fondo alla strada, da dove indicava la via.

Da bambini ci vedevamo quasi tutti i giorni, e sebbene ci conoscessimo da sempre, ci ho messo un po’ a capire che Raffaello Sanzio fosse proprio quel Raffaello lì, quello talmente famoso da non aver bisogno di altri appellativi. Se dici Raffaello, pensi a lui. 

Talmente famoso da dare il nome a una tartaruga ninja, non so se mi spiego, quella con la maschera rossa, che era la più divertente, tra l’altro.

Cavie

Dopo Invisible Monster è stato il turno di Cavie. E’ un libro difficile, crudo, denso di dettagli apparentemente insignificanti. Sulle prime ho fatto anche fatica ad afferrare lo schema narrativo usato.
Il sottotitolo è “Un romanzo di storie”, e sono proprio queste storie a dare corpo alla linea narrativa principale, la quale, senza questi racconti dedicati ai protagonisti, sarebbe molto più snella e probabilmente meno avvincente.
Quello che è certo è che dall’inizio alla fine Palahniuk colpisce duro, imbastisce scene raccapriccianti e scandalose. Se siete debolucci di stomaco potrebbe bastare già il primo racconto a farvi decidere di non andare avanti. Oltre è peggio.
Ho trovato questo articolo https://www.sololibri.net/Cavie-Chuck-Palahniuk.html che secondo me fa un’analisi molto azzeccata del romanzo, quello che aggiungo io è una riflessione sul modo di scrivere dell’oramai mio eroe Chuck.
Oltre al suo stile di scrittura che adoro, spoglio di fronzoli ma ricco di senso, oltre alla costruzione impeccabile del ritmo e della storia, della circolarità con cui vede e tratta ogni cosa, dalla frase, al racconto, all’arco narrativo, un’altra caratteristica fondamentale che ho individuato è la sua estraneità alla storia. I suoi personaggi sono una telecamera con cui inquadra il teatro che ha imbastito, e come l’obiettivo di una telecamera, l’autore non esprime nessun giudizio. I suoi protagonisti narranti non agiscono di propria iniziativa, ma reagiscono a una storia portata avanti da qualcun altro: ne vengono travolti, e la raccontano con un distacco tale per cui è possibile se non condividere, almeno accettare ogni cosa.
In Cavie il protagonista non è nemmeno un individuo, sappiamo che esiste, che sta nel gruppo, ma è per mezzo del gruppo che racconta la vicenda. Nessuno gli rivolge la parola, e non ne pronuncia nemmeno una. Qualsiasi cosa abbia da dire, la dice perché la sta vivendo insieme agli altri, anzi, perché la stanno vivendo gli altri: “La prima settimana abbiamo mangiato filetto alla Wellington, intanto che Miss America si inginocchiava accanto alla maniglia […] Abbiamo mangiato branzino striato mentre Miss Starnuto ingoiava pillole […] Abbiamo mangiato tacchino Tetrazzini mentre Lady Barbona giocherellava col suo anello.”
Sono gli altri a vivere la storia e a mandarla avanti. Il nostro protagonista non fa nulla, non pensa nulla, e quindi non esprime nulla. E’ anche l’unico senza un nome, l’unico senza un racconto, l’unico che non viene presentato durante il viaggio all’ingresso della villa. Tutti sono arrivati con un bagaglio e qualcosa di irrinunciabile. Tutti tranne il nostro protagonista.
È in questo modo, svuotato da ogni caratteristica che Chuck può raccontare la storia senza caricarla del suo giudizio morale. Lui, semplicemente, sta a guardare lo schifo e la miseria che mette in scena il mondo. E’ una specie di documentarista che ci spiega senza emozione in che modo il leone caccia la gazzella. L’unico mezzo che abbiamo noi per estrapolare la sua visione, è analizzando i soggetti su cui sceglie di puntare l’obiettivo. E’ tramite loro che costruisce la sua narrazione e la sua critica al sistema occidentale (quando va bene, quando va peggio all’uomo in sé).

Invisible Monsters

Come dicevo nel post precedente, sono stato fulminato l’anno scorso dalla scrittura di Palahniuk. Dei sei letti solo uno non mi è sembrato all’altezza (Beautiful You). Pescate uno a caso tra i primi libri pubblicati e cadrete bene. Chuck Palahniuk è stato Palahniuk da subito, i suoi elementi ci sono stati da sempre, le sue ossessioni, i suoi schemi. Prendete un libro a caso e troverete un perfetto manuale di scrittura. Puoi leggere come si scrivono i dialoghi, come si muovono i personaggi tra le pagine, come si intreccia una storia, come la narrazione può essere ribaltata di continuo senza perdere equilibrio. Basta un libro a caso per capire come può essere circolare un romanzo, una frase, una situazione. Prendetene uno a caso e imparate come una formula può essere reiterata per tutta la durata del racconto, diventando importante quanto la storia stessa. In Invisible Monsters sono i Flash, in Soffocare sono le parole imprecise ma che vengono subito in mente, in Survivor sono i suggerimenti sulla gestione della casa.

La prima regola del lockdown è non parlare del lockdown

Se avete visto centinaia di film ad un certo punto avrete cominciato ad acquisire informazioni sulle storie, sul linguaggio cinematografico, sui ritmi narrativi, senza neanche farci caso. Sapete che negli horror e nei thriller la minaccia non viene mai mostrata subito, che la vedrete per intero solo a metà film. Sapete che la prima scena di un film di azione non riguarda la trama principale, ma è qualcosa che la precede, che serve a stabilire il perimetro di gioco, e così via.

Alcune tecniche, certe strutture, le ho apprese naturalmente a forza di guardare film su film, tutte le altre mi sono arrivate grazie ai corsi di scrittura che ho frequentato in questi anni. La magia, però, funziona bene quando non si conosce il trucco. E io ho perso la mia parte di innocenza già da ragazzino, quando seguendo uno dei tanti speciali sul cinema ho scoperto che i film non sono girati in sequenza. Vi sembrerà una cosa stupida, ma cercate nei ricordi del bambino che eravate. Ora, quando leggo un libro, quando vedo un film, lo schema narrativo mi si rivela come il codice di Matrix davanti agli occhi di Neo. Fortunatamente la narrazione non è proprio come la magia, e così anche se conosci il trucco riesci a godertela lo stesso, certe volte anche di più. Fermo restando che il mondo è pieno di storie imprevedibile e fuori schema.

Durante il lockdown mi sono iscritto a un gruppo Facebook dedicato ai libri, e così ho cominciato a condividere con altri lettori alcune cose che stavo leggendo e che mi erano piaciute. La molla è scattata con la scoperta di Soffocare, un libro di cui avevo già sentito parlare, dell’autore di Fight Club che avevo già letto. Non so se è mi arrivato nel momento giusto, ma so che mi è esploso in testa come un tubo di coriandoli. Chuck Palahniuk è diventato uno dei miei scrittori preferiti e non vedevo l’ora di condividere questa passione con tutti. Di Soffocare purtroppo non ho scritto nulla, probabilmente perché ancora stavo rimuginando sulla sua tecnica, sul suo stile, ma con quelli dopo mi sono fatto un’idea bella chiara, che non varrebbe la pena di essere letta se non fosse che parla di Chuck.

La prossima volta parliamo di Invisible Monsters, riguardo a Soffocare è sufficiente dire che dovete leggerlo! 🙂

E adesso qualcosa di completamente diverso

Gli assassini tornano sempre sul luogo del delitto. Non lo so se è vero, ma certe finzioni cinematografiche e letterarie diventano esperienza comune e viene presa per buona. Ogni tanto nei film ci sono cose poco plausibili, reggersi a un cornice con due mani ad esempio, o impugnare certe pistole con una solo, errori grossolani che passano inosservati perché non ne sappiamo nulla. Quanto pesa una pistola automatica?

Quindi se sento ripetermi che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto va bene, mi avete convinto, ci credo. Non so nulla di assassini e i miei delitti avvengono tutti con il frigo aperto. Tutto questo per dire “eccomi di nuovo qua”. Ogni tanto torno sul luogo del crimine, senza apparente motivo, solo per provare quello che ho provato la prima volta. Chissà cosa direbbe un profiler di me.

Ciao Mondo

“Hello World” è un tipico esercizio di programmazione. La prima cosa che si viene chiamati a fare è stampare le parole “Ciao mondo” con il linguaggio che si sta imparando. Un’operazione priva di significato se non quello di sperimentare qualcosa. È il senso di queste righe dove il significato non va cercato nel messaggio, ma nell’esecuzione. Molti anni fa questa pagina era molto viva, poi il tempo, il lavoro, la vita ha avuto la meglio su di noi.

Scrivere era la mia valvola di sfogo, mi veniva facile, bastava tenere la mente sintonizzata durante la giornata e uno spunto arrivava sempre. Adesso al contrario scrivere è diventato un impegno. Ci vuole umore e dedizione. Lo stesso umore che mi sta dicendo che con questo post non si arriva da nessuna parte. Ma ve l’avevo detto: “Hello World”.

Hey, hey, I wanna be a rockstar

Il titolo non c’entra molto ma visto che riprende in parte il tema di Tutte tranne lei e in parte un aneddoto che scriverò più avanti, mi son detto che era meglio cominciare a scrivere questo post di ritorno, piuttosto che star lì a pensarci.

Sono passate ere geologiche da quando dieci anni fa abbiamo aperto questo spazio. Per me e per Nurofen è stato un luogo dove sfogare la nostra voglia di comunicare e un modo per trovare una dimensione e una voce con la quale raccontare le nostre storie. E in dieci anni può succedere di tutto (tipo restare un mese chiusi in casa, e girare con le mascherine). I miei amici si sono sposati, hanno fatto figli e lasciato un’impronta del loro passaggio tramandando il proprio corredo genetico. Io che dei mie cromosomi non sono troppo convinto, per lasciare un segno ho puntato sulla letteratura.

Al basso, Giannelli!

Giannelli non era un gran bassista, ma conosceva i locali giusti e soprattutto aveva un furgone. Raccontava che glielo aveva regalato Piero Pelù, tipo che lui una volta era andato a un suo concerto e lo aveva aspettato nel backstage per farsi fare un autografo. Lo aveva seguito fino al T1 che non aveva assolutamente voglia di ripartire. Nella sua storia, Pelù gli aveva lasciato le chiavi dicendogli che se riusciva a metterlo in moto per riportarlo in albergo se lo poteva tenere.

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Salma alla batteria!

L’appartamento di Salma era pieno di sorprese. Come si può conoscere l’età di un albero contando i cerchi nella sezione del tronco, così si potevano conoscere le epoche di Salma in base alle sue passioni, passioni che prima o poi finivano buttate in qualche stanza che, accumula oggi, accumula domani, diventava uno sgabuzzino inaccessibile.
[continua]

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