Brava Giovanna, brava

Categoria: Racconti brevi Pagina 1 di 3

IA

La casa di Stefano è controllata completamente da remoto. Un termostato intelligente sceglie la temperatura più confortevole, un sensore di umidità apre e chiude le finestre in base alla qualità dell’aria. Alle pareti non ci sono interruttori perché le luci si accendono secondo le abitudini di famiglia. Il forno scalda la pizza autonomamente e quando il frigorifero finisce un ingrediente lo segnala sul display incassato nello sportello di alluminio. Se abiliti la funzione, fa la spesa da solo.

Non ci sono librerie, a casa di Stefano, perché tutti i libri del mondo sono stipati in una cornice dove resteranno per sempre, dimenticati come foto mai sviluppate. Non c’è telefono, né citofono. La casa intera è un gigantesco microfono con il quale parlare con tutto il mondo pronunciando un comando. Non c’è un camino, non ci sono i radiatori, non c’è una cassetta degli attrezzi. L’unica cosa rimasta del passato recente sono i bidoni dell’immondizia, tutti in fila come soldatini appostati sul lato del vialetto d’ingresso, pronti a portarsi da soli in strada il giorno di raccolta. L’immondizia è l’unica cosa rimasta uguale perché l’uomo è ancora rimasto uguale. Quando l’uomo sarà libero dai bisogni del proprio corpo, quando non dovrà più nutrirlo, lavarlo, vestirlo, curarlo, l’immondizia smetterà di esistere. Oltre all’uomo, naturalmente.

Faccia di cuoio

Che ne sapete voi, con i capelli, cosa ha in testa una persona che li ha persi. Niente, appunto.

Io me lo sono chiesto come deve essere svegliarsi una mattina e rendersi conto che è finita, che non c’è più niente da combattere o preservare. Che l’unica uscita di scena dignitosa è la rasatura totale. Me lo sono chiesto come deve essere svegliarsi e accettare l’idea di non essere più quello che si è sempre stati. Rendersi conto, in realtà, che si è stati pelati da tutta la vita. È genetica: pelati si nasce, non ci si diventa. Ti svegli una mattina, magari a ventotto anni, o peggio ancora a venti (e non è che ci sia un età giusta per diventare calvi), per scoprire che non eri destinato ai capelli. Che tutti i tagli provati fino a quel momento sono stati solo una perdita di tempo. Ti rassegni, quel giorno, al fatto che non avrai più bisogno di un pettine, ma di un rasoio. Che tutta l’esperienza accumulata in anni di acconciature è andata a farsi benedire. Quasi come perdere il lavoro oltre ai capelli, praticamente cambiare mestiere.

L’altro lato del tavolo

["Esordiente" è una brutta parola e gli esordienti sono brutte persone. Per farvi capire quanto sono brutte basta dirvi che partecipano ai concorsi. In questo bisognava continuare un incipit scritto dalla scrittrice e sceneggiatrice Valentina Capecci, che poi era anche la presidente della giuria del concorso. Sono stato pubblicato ma ho mancato la terzina vincitrice. Ha scoperto solo più tardi che sarei diventato il suo preferito 🤓. In blu l'incipit, in nero la mia continuazione. Avevamo a disposizione solo 5000 caratteri, incipit compreso.]

Apro gli occhi. Li tenevo chiusi ma non dormivo. Succede sempre così quando devo affrontare una giornata impegnativa, passo la notte in bianco. Il mio fisico mi rema contro, per farmi partire già stanco e meno lucido del solito, in modo da peggiorare la situazione. Oggi poi sarà determinante e, comunque vada, la mia vita potrebbe cambiare per sempre. Perciò preferirei che tutto filasse liscio.
Mi alzo dal letto. Doccia, barba, capelli con calma. Sono in largo anticipo, gli abiti da indossare li ho già preparati e, salvo ripensamenti dell’ultimo secondo, o la scoperta di una macchia imprevista, o il classico bottone che si stacca ruzzolando dove è impossibile recuperarlo senza smontare l’armadio, mi vestirò in un lampo.
Evito la colazione al bar, per non sporcare i denti. La sequenza giusta è biscotti, caffè e alla fine dentifricio e spazzolino. Il fluoro dopo la caffeina fa schifo, ma devo.
Pare che sono a posto. Lo specchio riflette l’immagine di uno che sa nascondere emozioni e insicurezze. Però lo specchio forse mente. Staremo a vedere.
Vado.

Tutte le volte che mi sono innamorato

Io ve lo descriverei pure quello che vedo, ma ho sempre avuto problemi con le parole. È una piazza, e nemmeno tra le più belle, diciamocela tutta. È grande, questo sì, ma bella non direi. Ne ho viste tante e posso affermare che le piazze crescono come gli alberi, o come i bambini: si sviluppano come possono, cercando di valorizzare quello che sono. Ognuna è diversa, cresciuta secondo la vita che aveva intorno. Ci sono quelle minuscole, quelle simili a dei chiostri, quelle in pendenza, quelle con i monumenti al centro, le fontane, i pozzi, gli obelischi. La maggior parte ha la chiesa su un lato, e in effetti c’è anche qua, anche se non tocca proprio la piazza. Il modo migliore per descrivere dove mi trovo è un grande parcheggio con i marciapiedi ai lati.

Forse potrei fare di meglio, ma ho sempre avuto problemi con la parole.

Fin da quando ero piccolo e mi chiedevano se avevo la fidanzatina. Mi si paravano davanti queste facce che vedevo una volta ogni tre anni e: “Ti ricordi di me?”

E io stavo zitto.

Venerdì Santo

[Qualche anno fa ho avuto la possibilità di scrivere per una raccolta chiamata Marche d'Autore. Il progetto era nato (e continua tutt'ora) per raccontare le Marche prima di tutto ai marchigiani. I promotori dell'iniziativa sono partiti con una raccolta dedicata ai luoghi, per arrivare con i volumi successivi ai personaggi, la cucina tipica, e prossimamente gli atleti. Questo di seguito è il racconto che ho dedicato a Raffaello Sanzio]

Venerdì Santo

Io e Raffaello Sanzio siamo così. Voi non lo sapete, ma sto facendo quel gesto lì, di unire le dita. I diti, avrei detto prima di diventare uno scrittore. Io e Raffaello siamo cresciuti insieme, io al mio civico, lui in fondo alla strada, da dove indicava la via.

Da bambini ci vedevamo quasi tutti i giorni, e sebbene ci conoscessimo da sempre, ci ho messo un po’ a capire che Raffaello Sanzio fosse proprio quel Raffaello lì, quello talmente famoso da non aver bisogno di altri appellativi. Se dici Raffaello, pensi a lui. 

Talmente famoso da dare il nome a una tartaruga ninja, non so se mi spiego, quella con la maschera rossa, che era la più divertente, tra l’altro.

Anche che, pure, perché

Facciamo perché, poniamo pure, crediamo anche che io abbia sempre avuto torto nella vita. Ogni singola scelta creatrice di universi alternativi sbagliata…dal lancio di una moneta al giocattolo LEGO comprato, da un bacio non dato alla drammatica scelta tra un bagnoschiuma Felce Azzurra Cool Blue Uomo o al Narciso. Sarei dove sono adesso? Sai cosa, mi sento statico…un po’ come quei grossi e stupidi pianeti del nostro sistema solare e non perché sono sovrappeso e pieno di gas no…è che mi muovo ma non si nota un granché, mi son girato dappertutto eppure mi ritrovo nello stesso punto…mi segui?

Si..continua.

Massimo Dieci

Che se non sbaglio la cassa “Max dieci pezzi” dovrebbe essere la summa della velocità, il rifugio per i sociopatici come me, l’emblema dell’efficienza, l’apice dell’evoluzione umana eppure, chissà come mai, qualche esemplare della razza umana riesce sempre a farmi perdere la fiducia nel prossimo futuro. Ora, inutile dire che il destino sia stronzo ma anche molto creativo; mi mette davanti una coppia di anziani con un carrello pieno che all’avvertimento della cassiera “Ehy vecchi so che non arrivate a leggere fino a lì ma c’è scritto massimo dieci fuckin’ pezzi” rispondono con un “Eh ma allora facciamo tre scontrini diversi perché noi siamo furbi e gli altri dei poveri stronzi” e quindi stanno lì, mettono i primi dieci pezzi e invece di usare i divisori, altro picco tecnologico della nostra specie, aspettano…aspettano che il nastro scorra abbastanza da poter fare altri due mucchietti ben distanziati tra di loro, del tipo quattro metri l’uno dall’altro, mentre noi altri poveri scemi li dietro osserviamo le altre casse che scorrono a velocità doppia alla nostra, con sguardi tra l’incredulo e il disgusto. Ma il destino è un simpaticone, perché mica finisce lì…la tessera della signora è scaduta, ma guarda…e non sia mai che per una volta non possa guadagnare cento pulciosi punti fragola per prendere il quattrocentesimo sottopentola in cobalto armeno della collezione e quindi, prende e va al bancone per il rinnovo della tessera, scontrino sospeso, tutto fermo, il vecchio marito che incurante di ciò mette tutto nel carrello e prova ad andarsene per i cazzi suoi con la cassiera che urlando “ma proprio oggi dovevo rientrare dalle ferie cazzo” si precipita nell’atrio a fermare il vecchio furbastro. Ne nasce una lite a cui assisto svuotato da ogni voglia di vivere mentre tengo in mano quattro uova e un litro di latte, la cassiera che trattiene il carrello, il vecchio che vuole andarsene strillando. Tutto si conclude con il vecchio che tirando a terra tutti i santi russi conosciuti durante la campagna di Russia della seconda guerra mondiale, decide che “Basta con sta spesa porca puttana” e versa tutti gli articoli sulla cassa, imprecando e richiamando sua moglie urlando in mezzo al supermercato, lasciandoci tutti di sasso mentre la trascina via.
Però tutto bene dico, inspirando ed espirando…”A sto punto possiamo andare avanti dai”, se non fosse che il destino è un abile sceneggiatore e quindi, mettiamoci pure il figlio di quella davanti a me che strilla perché non vuole mollare il giocattolo da passare sul codice a barre, frequenze ultrasoniche nelle orecchie che innescano tutti quei microprocedimenti chimici che portano all’omicidio di infanti che Erode fatti da parte. Non ho poi ben capito come sia finita la faccenda, forse hanno passato direttamente il bimbo sullo scanner o forse ha semplicemente preso una sberla…ma la mia mente ormai cercava rifugio in mondi lontani da quel posto di merda, tra galassie remote, esoplaneti senza nessun essere umano a molestarmi la psiche…solo mari viola,cieli verdi, alberi e forse qualche animale…ma non troppi, massimo dieci.

Lei

Era appoggiata al bancone del bar che avevo scelto come punto di ritrovo con il solito amico. Col suo solito ritardo. La vedo dal tavolo sul quale stavo sorseggiando un calice di prosecco. Sembra lei ma non ne sono sicuro, in fondo non l’ho mai vista così elegante. Deve aver sentito i miei occhi addosso visto che si gira e mi sorprende mentre la fisso insistentemente.
Abbozzo un sorriso e salvo il salvabile: “Sei la maratoneta giusto?”
“Come scusa?” risponde lei come se stessi parlando un’altra lingua.
“Sì dai, la ragazza che corre sul lungomare.”
“Ah sì…mi ricordo di te…”
“Finalmente tutti e due fermi…Ti prego, siediti, sto aspettando una persona, ma intanto potresti bere qualcosa con me” le faccio mentre mi alzo con la stessa galanteria che i nobili usavano con le dame.
Prova a rifiutare, ma forse per evitare altri imbarazzi demorde quasi subito.
“Solo 5 minuti, però.”

Lettera a un’ipocrita

Se ne stava lì, ogni volta che per qualche motivo riviveva qualcosa che avevano condiviso insieme, se ne stava lì a ripercorrere la loro storia, le loro parole, le loro verità, quelle che nessun altro all’infuori di loro avrebbero potuto capire e conoscere. Nessuno. Quella verità così autentica che per non mischiarla con quanto di più misero e meschino c’era stato tra loro non andava nemmeno detta, quella verità così profonda e scandalosa che per pudore o per vergogna o per colpa o per paura non andava nemmeno ammessa. Talmente fragile che solo a pronunciarla si sarebbe incrinata: era meglio lasciarla lì, sepolta, ammantata da un velo perso e polveroso, come perso e polveroso era il cuore di lei. Lasciata là, nascosta dove nessuno l’avrebbe più potuta raggiungere, e guai a ritirarla fuori. Quella sopita verità era una reazione nucleare, e se fosse stata innescata avrebbe distrutto tutto quanto e spazzato via ogni cosa, in modo da poter ricostruire sulle macerie secondo il proprio disegno di vita e amore. Quella verità era un’arma che nessuno dei due aveva il coraggio di usare, né chi l’aveva creata, né chi la custodiva ancora nell’angolo più nascosto e solo del cuore. No, era meglio lasciarla lì sepolta, in attesa che molti anni dopo, per caso, qualcuno la ritrovasse sotto mezzo metro di terra, arrugginita, spenta ed innocua.

Le parole

Le soffitte sono la storia delle persone che le hanno abitate. Capita che trovi un numero di telefono di una casa in vendita, capita che ti incontri col proprietario, capita che per qualche motivo sia smanioso di farti vedere anche la soffitta. Capita che lui debba rispondere ad una chiamata riservata e si allontani e tu ti ritrovi tra la polvere, vecchie memorie sbiadite, e una grossa cassa appoggiata a muro. Sapete quelle casse semi-rigide, sempre di color rossastro/marrone, dalle pareti finissime e rinforzate sugli angoli da decorazioni in metallo opaco? Ecco quelle.
Se fossi stato in un film avrei soffiato via la polvere alzando una nuvola di scintille verso il fascio di luce che passava dalla finestrella lì a lato, ma di impolverarmi oltre non ne avevo voglia.

Non riciclabile

Che cazzo scrivo?

Guarda che avere voglia di scrivere non sempre è sintomo di avere qualcosa da mettere su carta, altrimenti sarei già un romanziere e la realtà dei fatti non sarebbero tre storielle accennate in due pagine, senza inizio, fine e personaggi. Dovrei pubblicare un libro con le prime venti pagine scritte da me e le restanti bianche, completamente vuote, cosi le riempono gli altri, che magari non hanno il mio sonno, la mia non voglia di lavorare, i miei puntini di sospensione nel cervello.

Serpente umano

Qualcuno è morto e sono seduto in una stanza.

Ho parenti e altra gente di fianco, seduti su divani vecchi ma tenuti perfettamente da una maniaca dell’ordine e della pulizia. Tutto sembra cosi tristemente poco vissuto ed ovattato che mi sento una comparsa dentro un set cinematografico. Parlano di come sia successo mentre io non riesco a fare altro che fissare la tenda bianca che ho di fronte. Sento un messaggio che mi arriva sul cellulare ma non posso leggerlo anche se vorrei, perchè potrebbe essere lei. Faccio finta di andare in bagno con una scusa, mi chiudo dentro e leggo, al buio.C’è solo un rumore, sordo, che proviene dalle pareti come di un motore a bassi regimi o il condizionatore nella cucetta di una nave mentre dall’altra stanza sento delle grida, segno che la ricostruzione degli eventi prosegue anzi, ricomincia per l’ennesima volta. Mi lavo le mani mentre mi fisso allo specchio. Oggi sono decisamente poco attraente, stanco, le occhiaie profonde con i riflessi verdi che arrivano dalle piastrelle del bagno che mi rendono malaticcio, gli occhi più cupi del solito.

‘Faccio schifo’ è la sentenza.

Ritorno di là ma stavolta scelgo una sedia lontana, rinuncio alla comodità della poltrona in pelle per potermi fare i cazzi miei senza scuse. Attorno, continua la discusione fra gli affranti e al morto se ne aggiungono altri

“…si è impiccato da solo, ha dovuto inginocchiarsi per farlo…”

La quasi fine del mondo (parte prima?)

Era una sera di aprile quando tutte le strade del mondo sparirono. Io me ne tornavo verso casa, maledicendo il mio insistere nell’uscire in maglietta, convinto che la temperatura estiva del pomeriggio rimanesse alterata anche di sera, ed infatti pioveva e faceva freddo.

Mentre maledicevo ogni singola goccia che mi cadeva addosso come un guanto di sfida, sentii un grande ed inaspettato vuoto sotto di me. Non so esattamente come riusciì ad aggrapparmi a quello che da quel giorno considerai la più grande invenzione dell’uomo, il lampione. La cosa strana di quel fastidioso evento infatti, è che solo le strade sparirono, in un improvviso istante, trascinate come per magia in una specie di silenzioso vuoto cosmico fluttuante.

Nemesi

 

Uomo di mezza età, occhiali dalla montatura in plastica marrone, occhi vispi azzurri, sottili, quasi crudeli nel taglio. Bocca serrata e dura, non un sorriso, si apre solo mentre l’uomo parla con se stesso, in assoluto silenzio muovendo lievemente le labbra. Stempiatura, giacca marrone, maglioncino azzurro, scarpe in pelle chiara. A volte lo vedo parlare con qualcuno dell’autobus. Stranieri, persone anziane, donne ma non capisco se le conosca davvero o se le stia solo importunando. Non ha routine, non ha orario, prende l’autobus quando lo prendo io, all’andata, e allo stesso modo, al ritorno. Il problema è che io lo prendo sempre ad orari diversi, perchè vado in centro quando ne ho voglia, o quando devo consegnare un lavoro. Capita che sia la mattina, il pomeriggio o la sera. Posso tornare a casa alle undici di mattina, alle nove di sera o a mezzogiorno, ma lui è li su quell’autobus. Una sorta di incredibile coincidenza.

Com’è possibile?

Un cucchiaio, una persona migliore.

Ci sono cose che proprio non riesco a fare, come rispettare i limiti di velocità, valutare una misura ad occhio oppure ricordarmi i nomi delle vie intorno a casa mia. Sbucciare la frutta è una di queste; che sia una mela, un mandarino o un kiwi, sono un totale impedito, spreco fette di frutta grosse come bistecche, lascio pezzi di buccia in giro nemmeno fossero coriandoli al carnevale di Rio e giustamente, quando vado a mangiare il frutto, mi accorgo orrendamente, che oltre essere diventato grande la metà, fastidiosi nano-millimetri di buccia sono ancora disseminati sulla polpa. Tra tutti i frutti, ho una predilezione proprio per i Kiwi ma il destino beffardo vuole che sia uno dei pochi frutti di cui non puoi mangiare la buccia perchè solo all’idea di mettermi in bocca quella sottospecie di pelliccia mi fa venire la nausea. Una situazione insostenibile fino al 17 Marzo 2012.

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