Che i biglietti di auguri tocca scriverli sempre a noi

Categoria: Racconti brevi Pagina 2 di 3

Red lights: bagliori rossi lungo la linea dell’orizzonte

Rossa è la luna di questi giorni, bassa e minacciosa, con nubi nere che assorbono i suoi bagliori e si trasformano in spirali e fumi tenebrosi. Rosse sono le luci delle pale eoliche lungo le colline che vedo all’orizzonte. “Red Lights” è la splendida canzone dei Vib Gyor che ascolto al momento, mentre costruisco mentalmente un nuovo pezzo da scrivere, senza nemmeno sapere dove andrò a parare. Sto percorrendo la strada per rientrare a casa, è notte fonda ed ho solo le “red lights” dei lampioni stradali alle mie spalle e di quella strana luna, sempre più bassa e malevola. Nel buio, camminando a memoria ripenso ad una frase che mi ha lasciato parecchio perplesso.

Ero in giro, ed un uomo di sessant’anni ha chiesto ad un altro uomo della sua età:

“Tu sei un giardiniere vero?”

Risposta affermativa e sicura.

L’arte dei piccoli gesti.

A casa mia è mia madre quella con più manualità, la pittrice, l’artista, quella precisa e ordinata. Ovvio, anch’io sono un artista ma insomma, è lei che riusciva a far stare dentro un cassetto 80 magliette, o a chiudere una delle mie valige da weekend, che di solito contiene vestiti per un mese.
Però ci sono dei momenti in cui nemmeno lei riesce a stare al passo, in cui, se mi serve un tocco da vero esperto, devo chiedere a mio padre. Oggi è proprio uno di quei casi speciali; devo partire e ciò significa che devo sistemare quei due-tre affari urgenti prima di prendere l’ennesimo aereo. Tra questi “affaruncoli” c’è anche quello di spedire un dannato pacco dall’altra parte dell’Italia.

Ora, non ho scatole adatte, sono un disastro in queste cose e sinceramente, ho veramente poco tempo da dedicare alle operazioni di bricolage che oltre ad annoiarmi si risolvono in tragedia, quindi non mi resta che chiedere al boss, mio padre, per fare un lavoro fatto bene.

Lo s-comfort-o dell’ammiraglio (una notte da pecore)

Mi piace la moquette solitamente. Di solito mi piace si. Quando è bella morbida, alta due dita, elegante e raffinata mi piace, si. Non la preferirei mai ad un buon pavimento in ceramica o parquet ma solitamente mi piace, si.

Questa non mi piace invece, sembra un enorme tappeto persiano neo futurista, dove tutti i ricami e i motivi floreali sono diventati dei quadrati blu con dentro dei quadrati gialli, con lo sfondo color porpora e orrende scritte “Admiral” giallo-verdi-pisciodicammello. Salutiamo la simpatica e sorridente receptionista (ma che bella parola che ho scritto), gli rubiamo una trentina di penne rosse e gli dimostriamo utilizzando validi documenti d’identità che abbiamo tutto il diritto di stare lì.

L’ingresso è pieno di slottomacchine, la gente meccanicamente inserisce monete e spera che gli vengano cordialmente restituite altre monete, di solito in quantità maggiore di quella inserita. Ma non è una roba naturale, perchè in natura se pianto qualcosa ci vogliono mesi perchè il terreno mi restituisca dei frutti, non può succedere tutto in pochi secondi. Innaturale. Ed infatti perdono.

Impara l’arte e mettila su una sedia…

Gli occhi sono fissi nel buio quando le dieci luci si accendono all’unisono.

Sedie sopra lunghe assi di legno consunto, martoriate da tacchi a spillo, piedi, passi di danza, oggetti trascinati e fatti cadere.

Tende rosse e nere accartocciate agli angoli, pesanti e tetre.

C’è chi non vede perchè ha qualcuno davanti, proprio su una sedia, ma quelli si alzano, convergono verso le assi antiche. Altre sedie e voci e tu solo ora capisci di essere un oggetto di quella fantastica visione e sta solo a te capire cosa sei. Un estintore? Una porta? Un passante? O un semplice spettatore esterno, che si perde la magia?

Ricetta per una serata ai quattro sorrisi

Lo spicchio di cielo che vedo tra i palazzi di Varese è azzurro, con nuvole bianche e grigie illuminate dai residui di sole tipici dell’orario happy hour. Sono piuttosto felice e energico in questo periodo ed è per questo che tornare a Varese per consegnare un lavoro e notare la tristezza di questa fermata dell’autobus mi fa sentire la pecora nera allegra tra un gregge depresso. Ognuno si fa i cavoli propri, occhi bassi e tristi, mente pensa a chissà quali problemi, ansie e paranoie. Le voci dei comizi elettorali in piazza arrivano distorte e lontane, sembrano più guaiti da cani affamati e comunque, nessuno qua riuscirebbe ad ascoltarli. Ci sono due ragazze alla mia sinistra, molto carine e giovani, a destra invece ho un impaziente cinquantenne. Dal lato opposto della strada arriva un giovane rampollo della politica italiana, comincia a offrire depliant elettorali e bigliettino, tutti rifiutano, qualcuno nemmeno risponde continuando a fissarsi i piedi e non considerandone l’esistenza.

Anche le due ragazze di fianco a me rifiutano la “mercanzia” del ragazzo.

“Ma dov’è finito Dio?” – capitolo 1 – L’elezione

Questa è una storiella (breve? lunga?) che mi è venuta in mente ieri sera. Ci sono diverse cose che l’hanno ispirata, alcune sono anche evidenti ma sicuramente prenderà una piega diversa a seconda di come mi sveglio la mattina. Questo è il primo capitolo, non so nemmeno se ce ne saranno altri, ma forse, non importa neanche.

10 Miliardi di persone seguivano con interesse il grande evento sugli olo-schermi nelle abitazioni e nei laser-silver bianchi da 80 metri per 50 piazzati nei centri di raccolta mondiali.
Stava per essere eletto un nuovo Dio, come succedeva ogni mille anni.
L’anno attuale in realtà non era chiaro a nessuno da quando uno dei precedenti “Dio”, che inspiegabilmente riusci a bypassare i controlli neurali che impediscono agli eletti di dire, fare o pensare a cazzate o mosse stupide, decise che i calendari fossero un parto di qualche entità aliena malvagia, costringendo tutti ad un lavaggio del cervello e rimuovendo dalla memoria età, date dei compleanni, utilità dei calendari e dei santi e marche di orologi famosi. Quel Dio venne rimosso a tempo di record e subito venne fatta una nuova elezione ma il concetto di calendario era ormai andato perso per sempre.
Le motivazioni che hanno portato a queste “elezioni” cosi particolari sono quanto di più semplici possano esistere anzi, in realtà è tutto riconducibile ad una sola frase:

“Mi avete rotto le palle”

Fuoco e bombe. Si stava meglio quando si stava peggio.

Una nube grigia e pesante copre completamente la cima del Monte Monarco, una collinetta di 400 metri che vedo dalla finestra di camera mia. Da piccolo credevo che fosse un vulcano, per la cima piatta e la forma conica. Poi crescendo ho capito che è solo un ammasso di sassi come gli altri, anche se questa nube lo fa ritornare ai fasti della mia infanzia. Sembra stia eruttando e gettando fumo, pur sapendo che si tratta solo di cumulonembi a bassa quota, carichi di pioggia, intenti a rovinarmi la serata a base di cena fuori, Ron Zacapa 23 e Jazz club.

Ora, oltre al fumo i vulcani sputano fuoco. Si lo so, in realtà è magma e lava, dategli il nome che volete ma in soldoni è roba che brucia, come stava bruciando il server che contiene Malditesto. Che poi in realtà è stato un microincendio in uno stanzino con una scopa, due generatori e tre batterie, nulla di serio, però per un po’ l’idea di perdere tutto quanto e dover reiniziare da zero a scrivere mi è ronzata nella mente. Giornata ricca di pensieri oggi.

Un pugno. Due dollari.

Se una giornata inizia male e continua peggio non può che finire in tragedia se la sfiga ce l’ha con te.

Giornata di lavoro intensa, ma con in programma di finire per le 16:00 in azienda e scappare ad un appuntamento di lavoro in centro Varese, cosa che ovviamente salta a dispetto delle buone intenzioni. Alle 18:00 sono ancora in ufficio con il capo seduto affianco, che mi ruba un pezzo di scrivania alla volta, che vuole modificare, tagliare, rielaborare e reinviare. Gli rispiego per l’ennesima volta, almeno la terza in mezz’ora che sono in ritardo per un appuntamento di almeno un’ora e mezza. Esasperato dai miei sospiri di scoramento ad ogni suo “altri 5 minuti” mi grazia e mi lascia andare con riserva, puntualizzando il fatto che è tutta colpa mia che ‘domenica mattina parto e non torno fino a giovedi quando c’è un sacco di lavoro da fare’. Problemi suoi. Esco da lavoro e vado a prendere il pullman per risparmiare tempo, nessuna voglia di tornare a casa, cambiarmi, prendere la macchina e trovare pure parcheggio in quell’inferno di città.

Lettera d’amore

Era una notte di un paio di mesi fa, il giorno non me lo ricordo. Tornato da una serata con un amico, morale sotto i tacchi nonostante del bel tempo trascorso assieme e condizioni meteo perfette. Ricordo che scrissi questa lettera vicino alla finestra del balcone, di notte, con la mia fida e piccola lampada da tavolo nera. Non so perchè non accesi le luci della sala. Scritta a mano, con la mia grafia quasi antica, fitta, due pagine.

L’ho appena riletta tutta d’un fiato, senza pause e non ho dubbi che sia la lettera d’amore più bella di sempre. Avete presente la netta sensazione che le parole non bastino, che quello che volete davvero esprimere sia nella mente e vorreste “lanciare” quell’emozione, quel pensiero nel cuore dell’altro per farle capire tutto in un solo istante? La sensazione di sforzarsi e non riuscire a parlare e la disperazione che ne consegue? L’impotenza di non poter infondere di sangue e lacrime ogni parola che dite, ogni frase che scrivete? Con questa lettera non è cosi. Non potrei aggiungere nulla per migliorarla ne togliere qualche frase. Anche gli errori, con le correzioni a mano lasciate in vista, perchè è scritta di getto, dal cuore, fanno parte della sua poesia.

Aspetto, aspetto, aspetto…

La schiena è appoggiata ad un vetro freddo che ogni tanto mi scatena brividi lungo la schiena.

La gente passa, mi guarda, sorride e prosegue veloce, come ne “L’autostrada” di Silvestri…non ho le cuffie altrimenti ascolterei un po’ di musica almeno…
Il calore è quasi soffocante, mi sposto continuamente per cercare un po’ di aria negli angoli bui di questa stanza se non sono occupati da altra gente pensante…e aspetto.
La frenesia è tangibile, la pazienza che lentamente ti abbandona e cominci a pensare a mente libera per non lasciarsi intrappolare da quel ritmo che non ti appartiene. Ripenso alla notte prima…

Ho sognato. Un sogno angosciante e terribile.

Radio Uomo Solo

Benvenuti a tutti, se c’è ancora qualcuno in questo mondo…

Trasmetto nell’ennesima mattina di vuoto. Una scatoletta di carne essiccata per colazione, il mais è ormai quasi finito. Chissà per quanto ancora potrò mangiare.

Il sole si infrange sulle onde, la scogliera marrone brilla per il sale incrostato lungo le sue pareti taglienti. Una bella giornata. Chissà perchè poi. Chissà per chi poi.
Mancano i gabbiani in volo…sono settimane che non ne vedo uno…chissà se anche loro sono spariti come il resto del mondo. Il binocolo mi restituisce l’ennesimo orizzonte piatto..non una nave, una barca, una zattera. Non una luce nelle lunghe notti, quando sul tetto di questo faro ascolto l’unica voce che mi rimane, il vento, cosi freddo, insistente. Forte.
Mi rimane il cielo, mi resta il verde della macchia intricata che cresce orgogliosa tra le fessure di questo scoglio nell’oceano dal blu profondo e triste, questo muro circolare e la sua scala di legno di quercia ormai macchiato dalla salsedine. Mi resta questa radio, questa voce, il fuoco del camino e la speranza che non sia davvero rimasto solo. Ma oggi quella speranza è più debole che mai.

21 ore

Controllo ancora una volta l’orologio: le 5:20.

Decido di camminare di nuovo verso casa, la luce comincia a farsi più insistente.

La serata è stata divertente, anche se è finita da circa 2 ore e ancora una volta, sono l’unico rimasto sveglio. Non ho sonno, non riesco a dormire. Succede cosi da almeno tre settimane per diversi motivi, salute, emotivi…anche voglia. Alla fine ho sempre considerato il dormire uno spreco di tempo e questa sveglia forzata mi sta portando a livelli di attività mai visti anche se ci sono dei lati negativi, soprattutto di pomeriggio.

Amsterdam battle

La pioggia bagna il cemento rendendolo lucido, le luci appese ad una stranissima tettoia, gigante e dalla forma di disco volante, si riflettono come luci strobo. Gradinate, una piazza, scalini, pieni di giovani. Bottiglie di birra rotte, coriandoli, gente di ogni tipo e io già rimpiango di non avere una macchina fotografica ragefinder nella tasca. Dannazione. Si respira la tipica aria del sobborgo malfamato di Milano insomma, non avevo dubbi.
L’interno del Barrio’s Cafe è cupo, non ci sono cameriere gentili, c’è solo un barista scontroso, vestito come un taglialegna,super impegnato che sbraita contro chiunque voglia aiutarlo. CI mette 10 minuti a servirmi una Vodka Lemon.

Sono un coglione

Mi considero fortunato, o almeno, abbastanza fortunato.
Ho i miei momenti no con i classici problemi della vita come succede a tutti ma ho una famiglia, persone che mi vogliono bene, una vita “agiata” e il lavoro. Su quest’ultimo aspetto soprattutto, mi considero davvero fortunato perché sono uno delle poche persone che non lo cerca no…è il lavoro che cerca me. Una settimana fa credevo di non averlo più ad esempio ma non ne ero minimamente preoccupato. Quattro giorni dopo ne avevo di nuovo due ed è sempre stato cosi dall’età di 22 anni.
La cosa bella del mio lavoro (che mi sono creato da zero, quindi qualche merito ce l’ho) è che mi occupa poche ore al giorno che oltretutto gestisco come voglio, mi lascia un sacco di tempo libero, mi diverte e soprattutto, mi rende bene. Stavo giusto cominciando a pensare a come occupare il resto del tempo quando sabato mattina arriva una chiamata inaspettata: un tizio aveva sentito da un tizio amico di una tizia che forse uno che si chiamava come me e con il mio numero di telefono sapeva fare in qualche modo un lavoro che a lui serviva.

Impossible blue

Meno di un cinquanta centimetri mi separano da lei…ed ho paura.

Paura che di nuovo quel triste grigio che adombra l’interno di quell’autobus venga nuovamente rischiarato dal colore perfetto dei suoi occhi…

“Continua a leggere…continua a leggere…” dico tra me e me, sperando che lei sia clemente.

Sapete…non ho mai distolto uno sguardo, a volte la prendo anche come una sfida per chi mi guarda e mi squadra. Fissarli negli occhi, finchè non li distolgano imbarazzati da quei secondi di incredibile difficoltà. Fissare negli occhi un estraneo per secondi che sembrano ore è snervante, ci vuole testa e volontà. E io non ho mai avuto un imbarazzo, credendo ciecamente nella forza del mio sguardo, ho sempre guardato negli occhi le persone, per fargli capire chi sono, cosa penso, per fargli capire che quando parlo io sono sincero e genuino.

Fino ad oggi…

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