Brava Giovanna, brava

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Pillola del 188° giorno – Che tanto fra 5 miliardi di anni è tutto finito

Seduto, tavolaccio di legno di un pub, tre luppoli dentro una bottiglia di Bock marrone mentre si discute di donne e moto, giusto qualche giorno fa…
 
Si presenta questo tizio che non conosco…do la mano, lui la stritola e la cosa non mi piace, come se ti prestassi la macchina e me la riconsegni schiacciata sul muso, senza portiere e con un barbone morto sul cofano.

“Grazie…”

“Si prego…però…cazzo…la macchina…”

“Ah si…però grazie eh…”

Ora…vorrei dimostrargli che il parkour serve a qualcosa reagendo con una contromossa che gli demolisca i metacarpi ma si sa come finiscono queste cose poi…una tira l’altra, ripicche su ripicche e finisce che la prossima volta porta un amico pugile da presentarti ed invece di darti una pacca sulle spalle ti gonfia di botte in un angolo.
 
Sapete cosa dimostra tutto questo schiacciare le cartilagini altrui? Dimostra il tipico atteggiamento di ‘cercare di far vedere qualcosa’…che io son forte che ti stringo la mano durissimo…te la presso bastardo, te la spacco quella mano hai capito?
 
Fai come ti pare ecco…mica mi interessa…mi dà solo un po’ di fastidio anche perché poi ci penso ed un sacco di volte nella catena dell’apparenza ci finisco pure io e mi do fastidio da solo.
 
Oggi ad esempio, vado a messa…non per quale strano motivo eh…è che i miei credono che frequenti spesso ma in realtà no ma oggi non avevo alternative divertenti e stare a casa nascosto in un armadio non mi garbava, troppo scomodo e ho il torcicollo. Quindi decido di andarci davvero per una volta, sedermi in fondo ad osservare come il cameramen in un documentario sulle bestie della savana…capire in cosa credono quegli altri lì che in fondo, se ci penso, credere sul serio sarebbe bello e comodo anche per me.
 
Nel trucco dell’apparire ci cado appena entrato, subito a puntare la figa nel coro mentre maledico la mia barba incolta, i capelli non rasati e i vestiti da barbone tossico. Arriva il momento delle offerte e io tiro fuori il portafoglio ma dentro ho solo trenta centesimi e i rimasugli di una SIM. Le vecchie attorno intanto sventolano buste e bigliettoni, sembrano brooker all’apertura di Wall Street, mentre io non so che fare con la mia evidente indigenza.
 
Mi creo un piano subdolo con cui possa cavarmela senza passare in quei terribili secondi in cui sei l’unico che non butta dentro monete e guardi in basso fingendoti distratto o peggio…addormentato.
 
Il trucco che escogito sta nell’infilare la mano dentro il buco sulla stoffa che copre il cestino e ‘lanciare’ le monete nell’angolo più buio. Faranno casino rimbalzando sul resto di quella riserva di Nickel. Sembrerà che abbia gettato una manciata d’oro e l’omino delle offerte non vedrà nulla…che quello lì se lo osservi bene sta sempre a guardare in basso, verso la fossa dei soldi, scannerizzandoti il bilancio bancario con due occhiate.
Eccolo che arriva appunto, completo grigio, leggera protuberanza addominale, camicia azzurrina, occhiali e occhi che osservano. Tutti buttano dentro qualcosa…ed ogni volta mi sembra di notare nell’omino un leggero “Si Si” di approvazione severa fatto con la testa. Quando me lo trovo di fianco uso la mossa dello scorpione…così l’ho chiamata…e lancio le monete.
Forse sarà la più grande dimostrazione dell’esistenza di un Dio burlone della mia vita…non so…sta di fatto che le lancio non so come sopra il cestino…e cadono sulla stoffa. Tutti vedono, tutti fanno ’10 + 20…30′. L’omino non lo guardo in faccia ma di sicuro ha stampato un ghigno di sdegno e scomunica.

Raccolgo dalla stoffa e butto dentro…pure il ‘tin’ è misero.

Con vergogna passo in rassegna gli errori fatti con ‘lo scorpione’ ma qua la fisica non c’entra nulla, semplice beffa divina che comincio a capire il perché gli altri alla fine ‘credono’…certe cose non te le spieghi.

Il problema è che me ne dovrei fregare, fare come la vecchina povera al tempio al tempo di Gesù con l’unico obolo distesa per terra, che mica è di queste cose che devi preoccuparti, fottitene e passa oltre che la vita può finire in un attimo. Una fuga di gas ed esplode tutto, kamikaze iracheni musulmani che entrano con autobomba dalla sacrestia oppure una laserata di onde gamma e plasma che arrivano da una supernova.

A questo non avevate mai pensato eh? Cadere dalle scale…incidente in macchina…ma supernova mai vero?

Una sera di due settimane fa non so come sono finito a parlare di cosmologia avanzata con un mio compare. “Tanto la terra sparisce fra cinque miliardi di anni…inglobata dal Sole che diventerà gigante rossa…” gli dico, fiero e saggio.

Il mio amico ride a squarciapalle…si lo so che si scrive crepapelle…bhe comunque ride e risponde

“Ma te sei folle…a parte che ci saremo già estinti o saremo diventati delle robe alte tre metri senza palle…senza cazzo…senza peli e che si autoriproducono…ma sicuramente prima o poi arriverà qualche cazzo di onda d’urto cosmica di raggi gamma e neutrini che ti riducono tipo Plasmon liofilizzati tempo dodici secondi…”

Si insomma…tu sei li con la tua morosa sulla spiaggia di notte che vuoi trombare mentre lei è li che fantastica dolcemente sul cielo stellato che è vecchio di qualche milione di anni…come vedere diapositive di vent’anni fa…e ti arriva questo fascio di particelle cazzute che ti riduce in carbone e non ti sei manco abbassato la zip.

E’ successo che da qualche parte cinque minuti fa, all’angolo tra la 5° strada stellare e Alpha Centauri una stella è esplosa e nessuno lo poteva sapere. Fuga di gas cosmica. Tutto finito.

C’è da andare in giro spaventati altroché…ti becchi uno davanti che ti vuole rapinare “Dammi tutto quello che hai!” ed ha una pistola in mano. Ci sarebbe da rispondergli “Ma che cazzo fai con quel pistolino…ma non sai che magari ci sta arrivando una pallottola di radiazioni a 800.000° gradi e fra due secondi siamo morti?” Gli prendi la pistola dalle mani e lo abbracci.

Ecco perché sta cosa dell’apparire alla fin fine è davvero una perdita di tempo, un vero spreco. Pensiamo un po’ più semplice.

Ritorno dal viaggetto cosmico di nuovo sulla terra. La messa è alla fine, la figa del coro canta insieme con le altre.

“E quando il sol si spegnerà e quando il sol si spegnerà o Signor come vorrei che ci fosse un posto per me…”

Che vi dicevo? Un Dio burlone.

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Pillola del 167° giorno – Tempesta dentro

Ieri la natura ci ha preso a schiaffi sconvolgendo la civiltà dal mio paese tutta la sera e la notte, lasciandomi a pregare per delle lampade ad olio mentre gli alberi venivano spazzati via, le mie persiane picchiate come in un interrogatorio. Una festa di luce e frastuono.

Sono riuscito a cenare grazie a piccoli scampoli di elettricità che riuscivano ad alimentare il forno quel tanto che bastava per riscaldare il cibo, sono riuscito a vedere dove stava il mio spazzolino da denti grazie alle energie luminose residue di un cellulare vecchio e stanco, mi sono infilato a letto, alle 22:37, esasperato dal buio e dai quei ritorni di lampi ed eco di tuoni che non permettevano nessuna delle mie abitudini standard, che fosse leggere, annoiarmi di fronte ad una tv o fissare un muro bianco illuminato da luce artificiale. Mi sono sentito sconfitto, senza idee, mutilato.

Turbolento fuori e turbolento dentro, con sogni dei più variopinti fino a quello finale, io che dentro un bunker buio, dai grandi archi larghi in pietra rossa, intravedo una bellissima ragazza bionda, prima vestita con una camicia militare verde e capelli lunghi tenuti dietro poi, sopra di me, leggera e sensuale, nuda e dai seni piccoli e la vita stretta, sempre più attaccata al mio corpo perché la stringo e ascolto il respiro accelerato, la bacio e la tocco finché non mi fermo. Apre gli occhi, abbassa la testa e mi guarda in silenzio, delusa. Non capisce ma a me non importa…guardo in basso e c’è una ferita dai contorni bianchi che si propaga e mi spaventa vederla cambiare forma, sempre più grande. Sento freddo poi, noto qualcosa, una presenza. Guardo di fianco e ci sono i miei, seduti assieme su un divano come quando guardano la tv la sera e ora fissano qualcosa, assieme. Non guardano me, non guardano noi, ma un angolo ancora più buio, in fondo, dove non riesco a girare lo sguardo. Mi alzo e scosto la bionda che rimane nuda a fissarmi, seduta a terra su un pavimento di pietra grossolano e pieno di crepe e fughe irregolari. Le volto le spalle, giro oltre il pilastro che sta dietro di me, arrivo ad una porta…

Sveglio.

Il vaso in bronzo dorato dove teniamo gli ombrelli e che spesso uso da cestino è ribaltato sul sentiero, un ombrello giallo volato via che se ne sta cadavere sul prato, l’asfalto disseminato di rami, foglie e aghi di pino. Milioni di aghi di pino, come se anche per i ‘sempreverdi’ fosse arrivato l’inverno. Il cielo però, oggi è sereno e non c’è più nulla del viola dei lampi, nulla dell’elettricità e del vento senza controllo che arriva da tutte le direzioni massacrando case, macchine, ma anche animali e piante, come se fosse una punizione per essersi fatti corrompere, infilati in cuccie, case, giardini ed aiuole.

Esco all’una di pomeriggio per la pausa e il sole splende in un cielo ciano. In macchina, mentre torno a casa, una cavalletta verde brillante si appoggia sul parabrezza e cammina incurante delle frenate, del muro d’aria, del coefficiente di penetrazione aerodinamica, delle spazzole del tergicristallo che cercano di allontanarla e schiacciarla.

“No lascia…” faccio a Teo

La natura ha fatto pace, inutile provocarla.

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Pillola del 148° giorno – Palude

Faccio una camminata per il mio paese sotto un cielo coperto che mi risparmia da un sole ancora estivo. “Mio”…un aggettivo decisamente esagerato. Non mi sento parte di questo buco grigio, come il rapporto tra un agente commerciale e le mille stanze di Motel in cui dorme lungo le autostrade. Una stanza sconosciuta ecco cos’è, da due stelle, carta da parati orrenda, vista sulla provinciale 76, il frigobar…non si apre.

Squarciato a metà da una ferita senza fine che lo divide in due, una strada di rottami e ghiaia che lo attraversa, barriere di cemento ai lati, senso di desolazione e disastro. Dovrebbero esserci binari e treni e gente che sale e scende e che si incontra, si innamora e si ama, ragazzi che deturpano muri con graffiti e spaccano gli schermi della stazione ed invece ghiaia e desolazione e ponti sospesi e sgraziati che attraversano tutto, una Venezia di terra e rifiuti. Dicono che non ci sono soldi e che ogni mattina gli svizzeri si svegliano, vanno nel cantiere e aspettano che arriviamo anche noi, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Dicono che negli antri bui di quei tunnel sommersi da acque scure ci sia arsenico e i veleni dell’uomo e che ora è tutta una palude maledetta. Piena di mostri.

La ferita non ha cambiato nulla, tonnellate di roccia e terra sollevati ma nemmeno una pietra spostata negli animi con la gente continua a non uscire e a non salutarsi, a vivere in loculi protetti da siepi e cancelli e chiavistelli su porte e finestre blindate che accidenti, rubano anche di giorno e stuprano di notte e le parole sono fredde come il ghiaccio e i pensieri quelli veri sono in codice indecifrabile. Mancano le piazze e le feste sguaiate, i mercatini, le mamme con i passeggini e i vecchi negozi di una volta con i vecchi grassi e simpatici. Rimangono ferite sull’asfalto e verde umido e selvaggio.

Passo sotto i portici e i cartelli vendesi attaccati sulle vetrine di locali abbandonati sono scoloriti che tanto chi compra ormai, sembra tutto un oratorio abbandonato e tutta la gente dentro l’unico posto con vita dentro, il bar, è grigia e storta.

Non so, non ricordo se sia sempre stato così, se da bambino era diverso, se c’era la gente in giro. Non ricordo se ti segnalavano come individuo sospetto quando uscivi con la nebbia, se fosse normale che i nomi dei vicini nemmeno li conosci adesso. Parchi e aiuole tristi e non ci sono panchine, nemmeno.

Non mi fido di un posto senza posti interessanti in cui sedersi quindi torno a casa. Fra poco pranzerò. Appena finito, penserò sul da farsi ma non credo uscirò di nuovo.

Non ne ho voglia.

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Pillola del 77° giorno – Schiena

Ho un dolore nella schiena e lo sento soprattutto quando respiro.

Masochisticamente questa è una pratica che non riesco a smettere quindi ogni secondo, mentre il petto si alza per incamerare molecole di ossigeno, il dolore si fa pulsante e questo mi costringe inconsciamente a fare respiri più brevi e meno intensi. Mi è venuto mentre NON facevo parkour visto che stavo bevendo da una bottiglia d’acqua di quelle che mantengono la temperatura stile thermos, ma che hanno lo svantaggio di avere capienza pari ad un bicchiere e mezzo, un sorso e via. Sarà stato il collo troppo inclinato o una maledizione lanciata dagli altri che sudavano davvero, fatto sta che mi è partita questa fitta lancinante. Roba da vecchi. Non che gli abbia dato peso visto che mi sono allenato bene a parte una capocciata su un ramo grosso come un Anaconda ma che non ho visto sulla mia traiettoria. D’altronde i serpenti quelli grossi sì nascondono bene.

C’è di buono che oggi ho scoperto che mi bastava cambiare scarpe per alzare il mio livello a parkour e sbloccare un salto che da mesi non riuscivo a fare. Stavo li ore ma nulla, non ci riuscivo. Oggi al primo tentativo con un altro paio di scarpe “ecco fatto”.

D’altronde quelle che sto usando sono delle specie di hovercraft grigi con la forma di un blocchetto di cemento, con un design talmente pesante che sto cominciando a pensare che fossero troppo pesanti anche fisicamente…e a detta degli altri non avevano abbastanza “stile”…

Nel parkour a quanto pare, l’abito fa il monaco.

Le parole sono importanti #4

L’estate, i corsi affollati di ragazze vestite il giusto, la gara tra il tuo palato e il cono che si squaglia al sole, le serate che nascono sotto i colpi del mortaio nello shaker e muoiono sopra un filo di lenzuola umide di fronte a una finestra spalancata che mendica un po’ di brezza. L’estate con le zampate d’aria fredda che ti assaltano la gola lungo la porta del centro commerciale, la pelle dorata e la schiena spellata. L’estate e il mare, la sabbia che scotta e i sassi tutti all’insù, come se qualcuno ce li avesse lasciati per dispetto. Unica consolazione il tuo asciugamano frustato dal vento. Una volta a terra è morbido, tiepido, accogliente. Lo guardi e hai quasi voglia di stringerlo a te, il tuo asciugamano. È bellissimo, il tuo telo d’amare.

“Come la vita appunto…”

Conscio delle mode che cambiano e che tornano, dei fusi orari, delle gambe nude d’estate, dei visi che non dimentichi, delle guerre, le scaramucce tra vicini, le parole dette dietro e davanti, pensate prima e dopo. Irrequieto, odio gli ambientalisti, odio chi sporca, insofferente con chi dice bugie, disprezzo totale per il buco dell’ozono, le lampadine a luce fredda, le sedie con servo-meccanismi elettrici per reclinare schienali scomodi. Agitato quando non devo, sereno saltuariamente circondato da problemi, amici, conoscenti ed inesistenti amanti con transgenici desideri di libertà ed indipendenza tra le comode e sicure mura di casa in un incredibile e soffice cuscino di ipocrisia e idiozia con stupidità accentuata da comportamenti infantili, cattiveria esagerata da scelte subdole, esco male in foto ma è una scusa, sono io quello e spesso non lo accetto causa sindrome di Peter Pan, sindrome di capitano uncino, Sacra sindrome. Pretenzioso sfoggia-talento in ogni scrittopittofotovideoitaralluccistannonellacorsiaotto-settore, dotato di ambiziosi desideri di semplicità nel senso che mi basterebbe una sola unica, complicata, irrealizzabile ed “èormaitroppotardi” cosa per essere apposto e quel vuoto quindi rimane, impossibile da colmare con le mille cose che mi obbligo a fare e che generano masochistici mulinelli mentali di insoddisfazione ed incertezza, ED E’ QUESTO il motivo per cui cambio un sacco di dentifrici; perché sono indeciso, non so capire qual è veramente il migliore e cosa voglio dal mio dentifricio, quale gusto mi piace, qual è il mio rapporto con i miei denti, il mio sorriso e quello degli altri. Quindi confuso mi dedico a spese folli dettate dal cuore, gesti folli dettati dalla noia, da amante del rischio, del cinema, delle giacche eleganti, dei vestiti brutti e di quelli belli che curo e conservo con morbosa follia collezionistica, sempre insofferente ai complimenti se non me li faccio da solo, sdoppiato, confuso, depravato, orientato verso soluzioni drastiche o irrealistiche sempre oltre il punto di non ritorno, arcaico nei termini che uso e nei concetti.

Numeri

Diciannove i giorni che non scrivo qualcosa. In questi diciannove giorni, venticinque sono i posti nuovi che ho visitato tra negozi, locali, case e città. Zero le lacrime versate, ma due volte ci sono andato vicino, una per un dolore dentro, una per un dolore fuori. Tre le bugie che ho raccontato, due le verità che ho scoperto e che non volevo sapere; una mi ha fatto male anche se zero è ormai la sua importanza. Tre persone nuove conosciute, una forse è davvero importante. Dieci i brindisi, venti gli abbracci, trenta i baci. Ottocento i chilometri, in macchina a piedi e in treno. Quattro le ore ad ascoltare la pioggia, questa notte; dieci le lettere in malinconia. Duemilatrecento gli euro spesi tra mille cazzate, mille spese, mille uscite. Seicento le belle foto da poter scattare, duecento gli attimi persi in cui non sono stato veloce abbastanza, sicuro abbastanza, coraggioso abbastanza, quattrocento quelle scattate. Solo venti ne ho tenute. Mille i ‘ciao’, mille gli sguardi a sconosciuti a cui vorresti rivolgere una parola, mille gli insulti a chi non vorresti rivedere mai più, anche se dopo un solo secondo ti calmi. Cinquanta le canzoni nuove ascoltate di cui quaranta non ricordo già più il titolo, otto film visti di cui due al cinema, cento chiamate, trecento messaggi, centoventi lunghi minuti in attesa, trenta groppi in gola.

Duecentoventidue le parole finora. Sinceramente non so perché ho scritto tutto questo, vi dirò la verità, volevo parlare della crisi di ispirazione qualche giorno fa in cui non sentivo di poter dire davvero qualcosa, cosi ‘preso’, impegnato, stressato. Poi, in un momento di riflessione volevo parlare della solitudine.  Il giorno dopo ho scritto un racconto divertente, per poi scrivere dell’amore e di un momento felice. Ma stamattina, quando mi sono svegliato, la pioggia aveva lasciato spazio ad un bellissimo sole e ho cominciato a pensare a come quello che per noi è un caldo abbraccio mattutino, una luce che rischiara e che ci fa sentire bene, per gli scienziati è solo una massa sferica di gas bollente gettata nel freddo buio cosmico. Tutto è riducibile ad un ammasso di numeri in questa vita.

Ma sono convinto che anche un numero può essere raccontato con emozione.

La storia delle 4 mollette

Sono fuori sul balcone, una bellissima giornata primaverile. Cerco di stendere un piumone appena lavato, gonfio d’acqua nonostante l’abbia strizzato per mezz’ora, pesante, freddo. Per stenderlo non mi bastano due mollette quindi ne uso quattro.

La parte più difficile è trovare la giusta posizione affinchè tutte e quattro le mollette tengano. Basta un solo cedimento, una sola molletta che si stacchi e il peso non è più controllabile, tutto si sbilancia e anche le altre mollette, anche se messe nel miglior modo possibile, pian piano cedono. Ci metto un po’, diversi tentativi, lo piego e lo ripiego, a volte le mollette sono troppo piccole per lembi cosi spessi, a volte sembra che tengano ma è solo un’illusione; cadono al piano di sotto e non posso fare altro che scendere per recuperarle.
In qualche modo riesco a sistemarlo, le mollette sembrano tenere e la giornata di sole comincia a fare il suo lavoro con costanza. L’acqua evapora, il piumone diventa più leggero e più caldo, il profumo del detersivo comincia a spandersi e le mollette sono forti e fiere del loro ottimo lavoro.

Il viaggio (fasten seat belts while seated)

Ho un’infinita distesa di asfalto davanti a me, la pista di atterraggio. Lucida di pioggia, un pallido sole che illumina le pozze d’acqua e i mezzi color arancione, fermi, inoperosi, disposti quasi senza cura su quell’enorme manto nero. Attorno a me, gente poco entusiasta attende l’apertura dell’imbarco D10, che in uno sforzo di fantasia spirituale leggo come “Dio” ma che in realtà, è solo un imbuto grigio e giallo che si innesta in una triste torre disseminata di oblò. Manca ancora un’ora alla partenza.

La playlist casuale è spietata anche oggi, sembra scelta apposta per farmi stare male anche quando dovrei essere contento di tornare a “casa”, da chi mi ama, mi ascolta, mi accoglie. Triste non per quello che lascio, ma solo per quello che non troverò, una volta tornato. Arriva altra gente, qualcuno è già all’entrata dell’imbarco, come ad un concerto, per prendere i posti migliori sull’aereo. Dovranno stare in piedi per un po’ ma soprattutto…ne vale davvero la pena? Un’ora in piedi per avere un’ora di finestrino, probabilmente addormentati e annoiati, con gente affianco che nemmeno conosci. No, non credo…

Riflessioni/rifrazioni/direzioni

Sono al telefono con un’amica. Le voglio bene, anche perchè spesso ci ritroviamo nelle stesse situazioni e ci diciamo le cose che vogliamo sentirci dire. Periodo difficile per lei, come per me. Sono risoluto, logico, pragmatico, forse anche duro quando le parlo, ma è quello che al momento le serve ed è anche quello che al momento MI servirebbe, ma con me stesso non riesco ad esserlo.

Solo al sole

‘Come poteva farsi notare da lei?’

Era evidente, che oggi fosse distratta, tutte quelle rose…

Ad ogni ammiratore aveva detto di amare un colore diverso, il rosso della passione, il blu del mare, il bianco della purezza. Forse li prendeva in giro, forse amava tutti i colori o semplicemente, adorava far capire alle colleghe dell’ufficio che gli ammiratori erano tanti. Colleghe invidiose della sua bellezza, della sua simpatia, della sua intelligenza.

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