Brava Giovanna, brava

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Nebbia

La spiaggia stamattina s’è svegliata nella nebbia
e anche libero da gioghi mi sentivo in una gabbia,
in una serra stinta che coltivava rabbia
nel rimpiangere una vita scritta solo sulla sabbia.

Parole guaste, lambite dalla lingua delle onde,
che avanzata su avanzata con la schiuma le confonde.
Resto il ramo rigettato senza frutti e senza fronde
resto terra attraversata dalle crepe più profonde.

Pietra e polvere

Mentre guidavo di notte, un paio di luci gemelle ai lati di una porta in legno di una casa a mattoncini, mi ha riportato di colpo a 20 e oltre anni fa, fino a memorie oramai sopite da anni e anni di rassicurante quotidianità. Il lavoro, la cortesia, la disponibilità, il benessere e l’efficienza. Il concetto di efficienza forse è il più barbaro dei nostri tempi. Tutto deve avere un tempo, uno scopo, tutto deve portare a un risultato. Ogni azione, ogni calcolo, ogni pensiero, ogni sentimento deve condurci al maggior risultato possibile nel più breve tempo possibile, perché altrimenti s’è sprecato risorse, e in questo caso la risorsa è il tempo, e il tempo, ahi noi, non è una misura infinita. La perdita di tempo non è efficiente, e l’efficienza di questi tempi è la merce di scambio più importante.

Il giorno dell’indipendenza

Il messaggio mi è arrivato così, tra capo e collo, mentre guardavo l’ultima puntata dell’ultima serie di The Game of Thrones. Cuore in gola, sangue sparso per tutto il corpo ma di sicuro non al cervello. A momenti nemmeno capisco cosa sto leggendo.

Fra due mesi, o il tempo che ci vuole per sistemare alcune cose, andrò a vivere da solo. Io. Da solo. In una casa tutta per me. Gestita da me. Mi sento maturato di colpo e ancora non ho fatto niente a parte aver svuotato il conto corrente e essermi indebitato per tutta la vita. Forse è questa la maturità. Avere coscienza che una vita non ti basterà per viverla tutta.

Chissà cosa farò fra un anno. Per ora cerco di controllare il battito cardiaco, sorrido ogni tanto, ho lo stomaco chiuso, sono eccitato, spaventato, e spero di non aver fatto la più grande cazzata della mia vita.

Domani vado a firmare. Domani è il 4 Luglio. Non sono americano ma sarà un caso? Che sia di buon auspicio!

 

Pillola del 228° giorno – Pessimo

La routine della pausa pranzo parte sempre dalle stesse azioni e parole, esco dall’auto e “Ci vediamo dopo” dice Teo e “A dopo” dico io, chiavi per cancello-portone-porta, quando entro butto la giacca sul divano lanciandola dalla porta della sala, accendo la TV su Italia 1 per un po’ di Studio Sport che mi faccia compagnia sonora anche se i servizi li odio…tentano di esaltare il pubblico, fanno tacere il giornalista per lasciare voce a telecronisti ultras che raccontano partite sbraitando, urlando soprannomi, ripetendo “GOOOL!” con pitch a frequenza rompighiaccio.

La cucina è tutta fatta di legno, piano bianco segnato dalla mia pigrizia che mai una volta che tiri fuori il tagliere per affettare le cose, credo sempre di potermi fermare qualche millimetro prima ed invece no, “Tac!” e solco. Saccheggio cose a caso dal frigorifero ormai vecchio e stanco…esploro ripiani e griglie alla ricerca di derivati del maiale, fette di qualcosa che per una delle sacre leggi dell’universo conosciuto, qualunque oggetto tra due pezzi di pane diventa un panino commestibile,fossero pure barre d’uranio, sempre. Malsana abitudine di mangiare poco e male, disordini alimentari e mal di pancia, finisco col riempire lo stomaco in qualche modo senza logica…un barbone che rovista nelle discariche e butta dentro un sacchetto di plastica…trangugio veloce come un’oca, bicchierone di qualsiasi liquido in giro e in 3 minuti il pranzo è finito, indigeribile.

Sulla poltrona ci sono ancora scatole, rimasugli, carta da imballaggio dei pendentipallinedecori dell’albero di Natale. Le sposto sul divano che il tavolo è ormai un laboratorio per creazioni da mercatini, regali, pacchetti, nastri, cianfrusaglie, UHU colla in stick, cartone, millerighe, velina, stoffa…non c’è più spazio. Finisco il trasloco e mi siedo. Ci metto qualche secondo a capire che sono nel silenzio assoluto, le bocche dei giornalisti si muovono ma non esce un suono.

“Ahhhhhhh” dico.

Mi sento. Ci sento…

…quindi il problema non sono io ma la scatola nera che mi sta a 45° gradi dalla faccia che come al solito, sto seduto storto per cui mi alzo e opero molto violentemente su tasti e prese Scart, cavi che non c’entrano nulla…provo anche con gli schiaffi sul fianco che so che non funzionano ma credo sia una pratica più esoterica che scientifica, con un suo perchè ma nulla…quindi passo alle combinazioni di tasti premuti che nella mia mente dovrebbero avere senso, tipo “SEARCH+VOL” o ancora “PROGRAM+MENU+MUTE”…niente di niente.

Comincio a pensare che la televisione sia stanca di vivere cosi, subire giorno dopo giorno solo TG e Studio-Stronzate e mai un film decente…quindi fa come il bambino che della scuola non ne vuole sapere, si inventa le malattie, sfrega il termometro a mercurio sulle coperte per tirare fuori poco ipotetici 39.5° di febbre. Ieri non ne voleva sapere di schiodarsi dall’uno, che noi i canali li chiamiamo per numeri, mai per nome. Due giorni fa non c’era verso di sintonizzarla su AV al punto che dopo trentasette diversi tentativi ho lasciato perdere del tutto, come adesso…che sto li a fissare impotente quelle facce silenziose…esperienza strana…perché mi credo tanto diverso ma appena qualcosa interrompe la mia vita fatta di microschemi e piccole abitudini mi ritrovo spaesato a chiedermi come il più puro dei ragionieri “Che cazzo faccio adesso?” che ho venti minuti di pausa davanti e non so mica cosa si possa fare in questi venti minuti non di tempo normale ma tempo di routine-di-pausa-pranzo e di ributtarmi sul cellulare a farmi i cazzi degli altri, infilarmi nel grigio altrui, non ne ho voglia…è una robaccia che mi sta rovinando la vita credo quindi, improvviso e prendo un libro di Charles e comincio a leggere cambiando pure poltrona, ora sto sul cesso.

C’è lui che viene richiamato da due morti dell’ufficio postale…hanno scoperto che scrive roba sconcia sulla rivista ‘Open Pussy’, dove campeggia un cazzo gigante con le gambe in copertina, e se ne sta li in un ufficio grigio, a subire critiche e domande da due impiegati statali del cazzo benvestiti e impostati, a cinquant’anni, vecchio, stanco, depravato, indifferente, sconfitto dalla vita e dal peso del mondo e non so perché, ma mi viene in mente mio padre…ieri..che mi chiama in sala e mi dice la sua idea per spingere le sue creazioni…in che canali cercare…e io che quasi stizzito, con la voce un po’ più alta come succede sempre quando sono nervoso, gli dico “Non può funzionare!” e “E’ molto complicato…difficile…impossibile…non si può fare…ma va”, tutte frasi spezza discorso-gambe-passione-speranza e ora che ci ripenso, mi chiedo perché tentare di distruggere un suo sogno per quanto piccolo…facendo il meschino senza diritto, come se volessi togliere ancora, raschiare il fondo dal barile di una vita votata al duro lavoro, al risparmio, al crescere una famiglia nella sicurezza, cibo in tavola,  tetto sulla testa…la mia testa.

Avrei dovuto ascoltare e discutere, impegnarmi anche per lui, provarci assieme, dare un cazzo di minimo sostegno cazzo…ed invece no.

A volte riesco ad essere davvero terribile.

Elogio allo scandalo

Cos’è che rende la vita tale? Il fatto che sia unica, direte, ma se fosse identica dall’inizio alla fine sarebbe la stessa cosa? Se ogni giorno ci svegliassimo sapendo già cosa fare, cosa dire, chi vedere, quali sentimenti provare, se potessimo controllare ogni scelta, ogni occasione, ogni volere, e provare quello che vogliamo e scegliere quando essere buoni, o cattivi, o ignavi e sia quel che sia, sarebbe la stessa cosa? Se tenessimo in mano le redini della nostra vita vivremmo una vita migliore? E se potessimo comandarla a bacchetta saremmo più felici?

Io dico di no. 

Pillola del 197° giorno – Berlino #2

Il lucido pensiero che oggi sarà inverno mi percuote la testa mentre imburro e marmellatizzo tonnellate di pane nero integrale. Cappuccio di lana e desiderio di burrocacao mentre ci infiliamo di stazione in stazione in un alternanza caldo-freddo che pagheremo in qualche modo…e già si fanno discorsi sul martedì che ci attende e ci immaginiamo cadaveri dietro le nostre scrivanie, appresso alle nostre corse quotidiane sapendo che tutto quello che normalmente ci sembra un utopico desiderio, a Berlino e forse in generale in Germania si può, è normale, easy. Vuoi un lavoro? Si può, normale, easy. Una bella casetta a poco…magari andarci a vivere con la ragazza, spendendo il giusto, quartiere carino? Si può…è normale…è easy. Gli errori fatti si mettono in mostra, si impara da essi, se qualcosa si distrugge si ricostruisce migliore di prima…questo è quello che penso tra monumenti distrutti da bombe, quarantatré chilometri di cicatrice che segnano la terra e le mille gru che si muovono spostando nuove fondamenta, più alte di ogni palazzo, questa è la lezione che imparo. Mi stanno sul cazzo i tedeschi…ma in realtà li invidio…in realtà fanno quello che va fatto…e pure bene. L’invidio quando mi chiedo che senso abbia dover arrivare a sognare cose che dovrebbero essere normali, tappe di una vita semplice, senza rimanere ancorati a terra dalle difficoltà e invece…siamo animali in gabbia senza via di scampo se non andarcene via forse per sempre.

Via da scatole di cemento e metallo e jersey alti 5 metri disseminati di arte e pianto, proprio tra animali in gabbia passo il resto della giornata…bestie dagli occhi tristi che forse mi è passata definitivamente la voglia di vederli in questo modo in un via vai tra gabbie piccole e meno piccole, bombardati da flash negli occhi e casino di bimbi in festa o piangenti per chissà quale motivo. Diventano orsetti pelouche da vendere per sistemare il bilancio, diventano animali che lottano contro grate di ferro, cemento pitturato e fili di metallo e attorno, gente che sul vetro fa ‘toc toc’ per attirarne l’attenzione e tu vedi solo la tristezza di quei volti che ti sembrano quasi umani.

Esco con l’immagine in testa di un vecchio scimpanzé quasi accasciato in un angolo che tamburella con le nocche sul vetro…quasi a chiedere aiuto.

Di nuovo tra il cemento, in uno scorcio di follia, mi imbatto anche nell’animale peggiore…l’uomo …che io lo so che rischio a far foto a gente…ma quando il soggetto è una transenna con una bicicletta mezza scassata sdraiata in una pozzanghera…cazzo…ti chiedi se ti meriti che un imbenzinato nella downtown di Berlino ti sbraiti contro in tedescaccio maneggiando come spada una bottiglia di birra.

Come allo zoo, bestie allergiche a flash e gente attorno a loro ma niente sguardo triste.

Solo rabbia.

Pillola del 194° giorno – La parte dolce del pistacchio

Inizio con un peccato capitale rubando pistacchi salati nell’ufficio del Faraone, lasciati lì incustoditi dopo una mega-riunione d’affari mentre io passavo per caso, che il giovedi è già periodo di stanca per me e la Capa e tutta la combriccola di criminali della ditta.

Mi accorgo che da qualche giorno parlo solo di ‘storielle sul posto di lavoro’ …diventano più frequenti di pari passo con la mancanza di idee e racconti…che quelli nascono quando incontri gente, vedi posti e ti prendi la pioggia sulla testa e mangi fuori con gli amici mentre la realtà è che sto uscendo di meno per risparmiare due lire e metterli in saccoccia per chissà cosa poi…bho…forse comprare un sacco di pistacchi un giorno, una piantagione. Mi ricordo che i pistacchi sono alberi con il sesso…con il maschio, raro, che può fecondare non so quante decine di alberi pistacchio femmina…e a parlare di femmine finisce che desidero una di quelle donne d’altri di quelle da lasciare stare per davvero che non si può e cosi, di peccati capitali, siamo già a due fatti e la strada per l’inferno è un pelino più corta.

Pistacchi sopra la mano e scale in discesa sotto i piedi. Pistacchi duri che spacco con i denti quando non si aprono e salati dentro che le cose dolci quasi non mi piacciono più o forse non mi ricordo il gusto. Sgranocchio e penso alle liste…liste ai colloqui di lavoro, liste della spesa, lista davanti alla porta di una giovane ragazza che mi interessa che forse è fin troppo giovane e quella lista forse è fin troppo lunga che vorrei trovare uno stagno tranquillo una volta tanto e non stare sempre in barriere coralline tra gli squali, lucci e barracuda e tante altre robe che mordono o si gonfiano o che scintillano di blu e giallo sotto i riflessi distorti di un sole tropicale.

Vorrei che fosse semplice e magico come un incontro del destino…una strada e lampioni accesi color Natale che arriva e nuvole da giorno di pioggia, Andrea e Giuliano e incontro Licia per caso.

“Baciami Licia…”

Ma anche la incontrassi ferma con il suo Maggiolone in panne o salvata eroicamente dalle grinfie di un rapinatore di borsette bianche alla moda…troverei che lei non è Lei che quasi con la mente tiri fuori una foto come un detective, tesserino FBI e giacca lunga che guardi da dietro un vetro le sospette spalle a muro, bianco con linee orizzontali nere e i numeri dell’altezza in ‘piedi’ e non in metri “4 ft…5,5 ft…6 ft….” e quelli del telefono segnati a pennarello su fogli bianchi pure loro, tenuti davanti.

Confronti volto dopo volto con quella foto davanti ma tutte quelle lei non sono Lei. Nessuna è Lei e quindi cosa stare a fare con un’altra non-lei che non sarà mai Lei, nel tuo cuore?

La parte saggia dice “separa aspetti buoni e cattivi e scomponi in tanti pezzi la sua anima e fai un conto poi alla fine e segnati il numero e poi fallo con anche tutte le altre persone in lista…a proposito di liste guarda un po’…e vedrai forse che la sua somma non è certo la più alta di tutte…”.

L’ascolti finché Lei non ti lancia uno sguardo dritto nelle pupille e te, di colpo, la matematica nemmeno la ricordi più…

Pillola del 191° giorno – Delle canzoni canto solo le parolacce…

…e forse un po’ lo è inopportuno, che spesso ti ritrovi concentrato ad aspettarla la parolaccia nel testo e quasi non ti accorgi che forse se sei ad una fermata del pullman, l’ennesima della tua vita…circondato da vecchie, ragazzi con gli zaini che ci provano, facendo i finti maneschi, con ragazze con gli zaini…non ci fai una bella figura se ti leggono “Fanculo” sul labiale, sentono “Motherfucker” sussurrato e sibili “Cazzo” e “Merda” come un serpente.

Non sta più bene fare figure, sembrare lo sciroccato del quartiere, quando vai in giro in un primo pomeriggio e di nuovo la pioggia fitta e quell’ombrello che attacco su ogni pezzo di metallo riservando una parte di cervello al ricordo della sua posizione, per non perderlo e farlo finire nel cimitero degli ombrelli perduti che chissà che fine fanno e quante storie potrebbero raccontare i miei ombrelli persi, adesso in mano a ragazze bellissime, a immigrati, killer, barboni, ristoratori cinesi o ragazzini come me da giovane, cartellette sotto le braccia, occhiali, capelli che ti infastidiscono per quanto sono folti e lunghi…una scocciatura che rimpiangerai, o si che la rimpiangerai.

Vorrei due mani ausiliarie per riuscire a controllare tutto simultaneamente…cellulare, libro di Charles con ragazza stilizzata nuda a gambe larghe, rosa messa tatticamente proprio “li” che a proposito di figure chissà che pensano le vecchie, e i ragazzi che ci provano con le ragazze facendo i maneschi per finta quando intravedono quella copertina e la giacca lunga e la faccia e il cappuccio…losco figuro a proposito di figure, come dicevo.

Capita tante volte poi e anche oggi, che mi ritrovi a camminare in giro su marciapiedi sconnessi e neri con il desiderio di essere da solo infilato in una città nuova, scoprire e memorizzare gli angoli nuovi che incontro e tardare agli appuntamenti o proprio non andarci o fare giri più lunghi circumnavigando sobborghi, palazzi e parchi, starmene in giro con musica e parolacce soffiate mentre le macchine cercano di evitarti o di prenderti.

L’essere meditavagabondo è molto simile al sentirsi solo e malinconico, che vedi cartelloni di pubblicità e pensi a quando tutte quelle persone, che su quel cartone di tanti metri per tanti metri di grandezza stanno in riva al mare caricando una macchina di oggetti, saranno scomparse nel nulla e nessuno si ricorderà di quell’immagine e di quel cartellone e di quella macchina. L’essere meditavagabondo è stare ad osservare i volti alle finestre invece di guardare per terra dove metti i piedi, che in questo periodo ci trovi di tutto…i serpenti e gli altri animali escono dai tombini e le persone dormono sui cigli in mancanza di quattro mura…nemmeno quelle di cartone che le scatole delle lavatrici vanno a ruba pure tra i ricchi.

Vedo una ragazza sui trentacinque con i capelli rossi affacciata alla finestra che fuma con lo sguardo triste e penso all’infinità di giorni passati ad affacciarsi su una vista di cemento, asfalto bagnato da pioggia continua, platani morenti e quasi mi viene da piangere. Vago tra concessionarie di auto di lusso in riallestimento e macellerie e cinema chiusi passando tra gente che si arrabbia quando cerco di immortalare un frammento della loro vita in una foto, insultandomi come se facessi un torto nel trovare qualcosa di interessante in un’esistenza che si basa sul mangiare, dormire, riprodursi al minimo sindacabile, acquistare beni, sacrificare sentimenti, stare lontano dal mare, dall’arte, dalle risate come la loro.

“Scusate” dico “…scusate se vi ritroverete un giorno appesi in un istante del vostro passaggio nell’universo in muri di case lussuose o musei o carta patinata ammirati da tutti…elevando la vostra vita normale che non rimarrà scritta in nessun libro ma solo in ricordi che finiranno nel nulla…scusate se vi voglio rendere immortali…pregate il vostro Dio allora se ne avete uno…”

Meditovagabondovaneggio schivando scrosci dal basso e dall’alto per diversi decametri. Un posto asciutto…entro e incontro una conoscente non amica cicciona che è solita attaccare sul posto di lavoro e sugli armadi foto dei figli e del marito ed è tantissimo felice del suo isolotto di sabbia calda e acqua tranquilla che a me sembra tanto bello a pensarci ma se poi vedo una nave pirata mi ci voglio arruolare. A proposito di figure mi chiedo se le faccio quando degli auricolari tolgo solo il destro mentre l’altro rimane appeso che cosi è più comodo…non devo stare ad arrotolare e srotolare sciogliere nodi…imprecare e ripetere a memoria tutte quelle parolacce che sento nei testi delle canzoni ma con un vero motivo. Sembrerò maleducato mi dico, si sentirà la musica mi dico, quando sono li appoggiato, mentre le parlo, ad una mensola in ciliegio finto infilato in mezzo ad anfratti cubici di muratura bianca. Questo mi dico.

Però lei sorride e mi chiede se prendo ancora il pullman per fare foto agli sconosciuti.

“Si” rispondo…e un po’ sono sorpreso…non ricordavo nemmeno di averle raccontato una roba del genere l’ultima volta che l’ho vista…e sarà un anno fa.

Poi chiacchero e dico cose e lei sorride, chiacchera e mi dice altre cose…niente di importante…io le dimenticherò al secondo piano di scale in discesa stavolta, verso l’uscita. Lei se le ricorderà per la prossima volta che ci vedremo.

Ed esco…ed è già tutto dimenticato però sono un po’ più contento per quella piccola sorpresa…di qualcuno quasi sconosciuto che si ricorda una tale inezia della tua vita, come quando io faccio le foto delle persone normali che quasi non sembrano lasciare traccia nel mondo ma per me sono come piccoli oggetti importanti da tenere da parte e ammetto che essere quasi sorpreso-contento da meditavagabondo è una cosa nuova per me. Sento quasi, forse…che potrei provare a migliorare un po’ questo mondo triste, cominciando da quella fermata del bus li in fondo, con una tizia che avrà trent’anni, bionda e piccola con lo sguardo triste.

Cerco di non urlare le parolacce che sento e cammino verso di lei, sotto la stessa tettoia e la guardo, a meno di un metro di distanza, lei mi guarda pure.

No…niente…pur contento, ad incrociare uno sguardo sconosciuto e poi sorridere…non riesco.

Beh…come si fa con le diete…inizierò a migliorare il mondo da domani.

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Pillola del 83° giorno – Usb

Mi sdraio gonfio di torta, prosecco e stanchezza con il forte desiderio di starmene a casa domani e dormire magari, come uno si aspetta da un sabato mattina. Toccherà alzarmi invece, per colpa di un oggetto lungo tre centimetri e largo uno, la mia chiavetta usb. L’ho lasciata a lavoro e solo quando non ce l’ho a portata di mano capisco che la mia vita è tutta lì dentro. Documenti, foto, progetti… Se ho un pensiero, lo scrivo e lo salvo. Se ho un’idea la disegno e la salvo. A casa, come a lavoro è un continuo correre, salvare, cambiare computer, trasferire da memoria a memoria. I gesti più frequenti della mia vita sono passati da i tiri al canestro e le strette di mano allo staccare in maniera poco sicura le chiavette usb.

Certo che i bei tempi in cui scrivevo e disegnavo sulla moleskine mi sembrano lontanissimi e decisamente migliori. Verissimo che rimettersi a pc a trascrivere era una noia mortale però quando volevo rileggere qualcosa non dovevo accendere il pc, entrare con il mio ‘account’ digitando una ‘password’ e poi aprire ‘wordpad’ per caricare il file ‘rich text format’ da cercare su chissà quale ‘folder’ del ‘desktop’. Chilowatt buttati, una schiena martellata dalle tipiche posizioni scorrette di chi sta al pc, 32 pollici di schermo a 10 cm dalla faccia perché non c’era spazio per metterlo lontano ma il display lo volevo comunque grande.

Tutto questo per l’equivalente di sfogliare due pagine sdraiato sul letto.

Tutto per 4 righe scritte male.

Manco fossi Dante…

18 Gennaio 2010

Scendo dal treno, a Milano. Non ricordo che tempo ci fosse, ma ricordo bene il giorno, il 18 Gennaio 2010.
Ero pieno di non-umore, quello stato in cui non hai pensieri ma solo morse allo stomaco, senza idee ne piani. Agisci senza sapere cosa succederà quel giorno, perché non dipende da te.

Stazione, gente che sembra quasi che vada il doppio di te e che quasi ti passa attraverso, scale che da quattro giorni calpesti continuamente su e giù e di cui ormai riconosci anche le macchie di sporco negli angoli dei gradini, il pavimento gommoso disseminato di cartacce, liquidi e persone.

“Scusa…”

Ha i capelli rossi e un accento strano, particolare; come un italiano parlato male da un italiano oppure un italiano parlato bene da uno straniero…lo sento e penso a Vienna. Non so perchè.

Ho bisogno di scrivere

Strano eh, piombare qua dopo mesi di inattività, senza neanche lo sforzo di scrivere due righe per gli auguri di Natale e per l’anno nuovo, e affermare di aver bisogno di scrivere.
Il fatto è che ne ho bisogno come valvola di sfogo, devo abbassare la pressione accumulata in questo inizio anno scaricandola in qualche pagina, in qualche frase, magari qualcosa ad effetto, di quelle cose che ogni tanto mi vengono dal nulla. Il problema è che per scrivere c’è bisogno di una storia e di un pubblico. Io oggi non ho né l’una né l’altro. Quindi vado a braccio, seguirò il flusso di coscienza. Insomma, farò cagare. Come sempre.
Oggi scrivo solo perché devo dimostrare a me stesso e agli altri di valere qualcosa.

“Come la vita appunto…”

Conscio delle mode che cambiano e che tornano, dei fusi orari, delle gambe nude d’estate, dei visi che non dimentichi, delle guerre, le scaramucce tra vicini, le parole dette dietro e davanti, pensate prima e dopo. Irrequieto, odio gli ambientalisti, odio chi sporca, insofferente con chi dice bugie, disprezzo totale per il buco dell’ozono, le lampadine a luce fredda, le sedie con servo-meccanismi elettrici per reclinare schienali scomodi. Agitato quando non devo, sereno saltuariamente circondato da problemi, amici, conoscenti ed inesistenti amanti con transgenici desideri di libertà ed indipendenza tra le comode e sicure mura di casa in un incredibile e soffice cuscino di ipocrisia e idiozia con stupidità accentuata da comportamenti infantili, cattiveria esagerata da scelte subdole, esco male in foto ma è una scusa, sono io quello e spesso non lo accetto causa sindrome di Peter Pan, sindrome di capitano uncino, Sacra sindrome. Pretenzioso sfoggia-talento in ogni scrittopittofotovideoitaralluccistannonellacorsiaotto-settore, dotato di ambiziosi desideri di semplicità nel senso che mi basterebbe una sola unica, complicata, irrealizzabile ed “èormaitroppotardi” cosa per essere apposto e quel vuoto quindi rimane, impossibile da colmare con le mille cose che mi obbligo a fare e che generano masochistici mulinelli mentali di insoddisfazione ed incertezza, ED E’ QUESTO il motivo per cui cambio un sacco di dentifrici; perché sono indeciso, non so capire qual è veramente il migliore e cosa voglio dal mio dentifricio, quale gusto mi piace, qual è il mio rapporto con i miei denti, il mio sorriso e quello degli altri. Quindi confuso mi dedico a spese folli dettate dal cuore, gesti folli dettati dalla noia, da amante del rischio, del cinema, delle giacche eleganti, dei vestiti brutti e di quelli belli che curo e conservo con morbosa follia collezionistica, sempre insofferente ai complimenti se non me li faccio da solo, sdoppiato, confuso, depravato, orientato verso soluzioni drastiche o irrealistiche sempre oltre il punto di non ritorno, arcaico nei termini che uso e nei concetti.

Quell’ultima oncia fluida di respiro che brucia l’anima

Che periodo strano. Che poi non so nemmeno da quanto dura…forse due settimane, forse tre, forse ventisette anni.

Dovrebbe andare tutto bene da qualsiasi parte la si guardi…a parte il fatto che ho rotto i miei occhiali, spezzati in due come il Titanic. Li ho affogati di colla Loctite SuperGlue 3 per nottate intere ed ogni volta che credevo si fossero magicamente riuniti “tac!”, si spezzavano come nemmeno dei crackers di seconda scelta.

Mhà…(l’ho scritto giusto?)

Dicevo…anzi, scrivevo, “dovrebbe andare bene da qualsiasi parte si guardi”, tutto sopra la linea di galleggiamento. Eppure c’è questa sensazione strana in fondo al cervello, in un dannato angolo dove si è fulminata la lampadina, e non si vede nulla in quel posto, è tutto buio.

< EXIT >

Di nuovo al terminal 2 di Malpensa, ormai è quasi un’abitudine, come se fossi una hostess. Niente sole, sono le 8 ma sembrano le 16 di un pomeriggio d’autunno. Non so perché, ma stamattina mi sono svegliato con un’immagine in testa parecchio curiosa: un bar fumoso e caldo, sò di essere a Marrakesh. Indosso una maglietta nera e bevo un liquore mentre leggo concentrato un piccolo libro scritto in arabo, per nulla disturbato dal sole che inonda di luce le pagine e dal caos di voci e volti che mi circondano. Sarà voglia di evadere? Di fuggire via? Non basta prendere un aereo quattro volte al mese se sai sempre cosa troverai una volta tornato. Desidero il classico biglietto di sola andata, con giusto due euro in tasca, un ipod con la colonna sonora della vita, e spirito di sopravvivenza. Lo dico perchè ho pensato alla mia vita recentemente, ne ho parlato molto, ho chiesto consigli e pareri. Ho tutto; amici che mi amano, una famiglia grandiosa, un lavoro divertente e che mi fa guadagnare bene. Non ho una donna è vero, ma non è il momento, non adesso e forse non è nemmeno quello di cui ho bisogno. Sono seduto sul sedile dell’aereo, cinture allacciate, con lo sguardo fisso sulla scritta EXIT sulla plafoniera. Anche dentro l’aereo sei ingabbiato, rinchiuso senza via di scampo nonostante l’uscita sia ben segnalata. Come si ‘scappa’ quindi? Serve fare quello che vuoi davvero, non basta sopravvivere e basarsi su quello che la società etichetta come conveniente, sicuro, importante. Questa è la mia conclusione. Quindi chiudo gli occhi e penso ai miei desideri, le immagini che mi vengono in mente quando da solo, ascolto il mio cuore. Cosa voglio?

Ritorno a casa

Sono sul balcone di casa mia, oggi non lavoro. In sottofondo la musica di “Chronos” mi tranquillizza e il sole mi scalda. Chiudo gli occhi e riesco ad associare ogni immagine del film alla sua musica. Adoro “Chronos” perchè riesce a darmi sollievo quando il cervello è pieno dei soliti pensieri che non mi danno tregua.

Al momento, con il sole in faccia, quella musica fantastica e gli occhi chiusi, immagino di volare sopra una città bianca, con le nuvole che scorrono veloci in un cielo azzurro, le ombre delle nubi che scuriscono per qualche istante i marmi bianchi dei grattacieli, quelle strade nere con chiome verdi che spuntano per colorare l’asfalto di tanto in tanto.

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