Meglio vivere di illusioni che morire di certezze

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Pillola del 159° giorno – Oggi mi sono svegliato e desideravo le branchie…

Seduto sulla tazza, leggo da una bacheca altrui un altro aneddoto di un professore che fa giochetti con i suoi studenti, il tipico “dovete guardare la luna mica il dito”.

Coglioni.

Non so voi, ma io, ogni volta che leggo una di queste storielle, mi chiedo sempre se sia davvero accaduto, se sia sempre il solito professore che le racconta e se esistono davvero professori che fanno ste robe stile “cogli l’attimo”. Cioè, cosa insegnano? Lettere? Filosofia? Il mio professore preferito la insegnava filosofia e sapete cosa faceva? Spiegava. Poi, quando mi interrogava, si esaltava se arrivavo ai pensieri giusti, gridando “Bravo Emmanuel!” come Kant mentre quando dicevo puttanate stava zitto, guardandomi fisso da dietro gli occhiali tondi, con quella sua testa piena di barba inclinata verso il basso. Quando finivo “Non ci siamo Emmanuel…” come Kant “…stai dicendo una marea di cazzate…” diceva.

Storielle tutte uguali e inutili, una con la sabbia grossa e fine e il vaso, una con il foglio bianco e la macchia nera, una con il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto e ve ne creo altre mille o diecimila o diecimila milioni se voglio, usando le foglie delle siepi o le tessere di un mosaico, la vicina zoccola e le suore, le pagliuzze nell’occhio altrui, Indiana Jones e l’ultima crociata, partite di calcio e stadi pieni di pazzi ultras ultraviolenti, sole e raggi ultravioletti, pesci grandi in stagni piccoli o nel mare con banchi di sardine e squali, rane, scorpioni, insetti, formicai, atomi, protoni, elettroni, quark, particelle di Dio, gas perfetti. Vostra madre.

Inutili si, ma alla gente piace sta roba, le piace sentire metafore su cose che conoscono benissimo e che non possono cambiare perché di farlo…beh…non gliene frega un cazzo a nessuno. Storie lunghe o corte e barocche, piene di fronzoli e frasi che suonano bene e noi ‘scrittori’, anche se forse ‘scrittore’ è esagerato per un tipo come me, siamo Re e Regine supremi di questa disciplina e a volte, credo che se la carta parlasse potrei fare l’agente di commercio pure io, che a fottere la gente a ‘parole sonore’ invece, non sono un granché.

Io per dirvi che soffro d’amore scrivo un romanzo quando la realtà è che tutti soffrono d’amore, non dico nulla di nuovo ma dovrei uscire invece, e andarlo a confessare a chi di dovere. Figurati. Io per dirvi che sono stanco e nervoso parlo di strade asfaltate, giardini e ambienti di lavoro opprimenti. Io per dirvi che oggi fa freddo parto dai pinguini e dal rovente vulcano Samalas in Indonesia, che nel 1247 Avanti Cristoiddio ha dato via libera alla piccola era glaciale, caldo e freddo, Yin e Yang, bianco e nero, donna e uomo. Uno scrittore difficilmente dirà le cose come stanno in maniera diretta, farà dei cazzo di giri allucinanti, prendendola larga come un cieco alla guida, farcendovi di pillole narcolettiche peggio di un medico, usando termini che non capirete e che non capiscono nemmeno loro, tipo ‘IO subcosciente’ o ‘Verità’. Potreste avere qualche chance solo se lo beccate dal vivo, davanti ad una bistecca e una botte di lambrusco dolce e frizzante vuota per due terzi e tre quarti di terzo, depurato da tutta quella merda ma su carta…Non.Avete.Speranza.Alcuna.

Lo notate anche da questo pezzo dai…righe e righe di lamenti riassumibili in una frase e tanta ipocrisia su questa moda del “Carpe Diem”, che io, quello figo anticonformista, ci sono cascato e ci casco ancora. Sempre. Oh…lo ammetto, anzi, ammettiamolo tutti noi ‘scrittori’…riuscire a trovare significati e lezioni di vita banali con frasi e situazioni complicate che non c’entrano nulla è bello ed inutile, un esercizio stilistico che se poi azzecchi pure il finale con frasi ad effetto quasi quasi ci spariamo una sega. Storielle, racconti, aneddoti per far vivere meglio (ahahaha) o accendere il cervello della gente (ahahahaha!) scrivendo di utopistici stili di vita ideali. Ala fine a noi va bene cosi, a TUTTI va bene cosi, perché soffrire un po’ ci piace o almeno, a ME piace e anche fantasticare su una vita migliore MI e VI piace e finiamo nel cercare una morale anche nella lista della spesa.

“Vedo che hai preso la Nutella…forse è carenza d’affetto e vuoi spalmare quella piccola puntina di dolcezza che tieni sul freddo coltello della vita reale…che punta alla tua serenità come spada di Damocle….sopra la vasta superficie del tuo cuore spezzato…”

“No…è che mi piace quella cazzo di Nutella brutto idiota…”

Tipo, ora vi racconto che stanotte mi sono svegliato alle 4:48 che accidenti, sta diventando un appuntamento fisso che mi dà sui nervi, mi sveglio affannato, controllo l’ora e mi dico “bene, ho altre due ore da dormire” ma la realtà è che tutto comincia a diventare scomodo. La spalla è scomoda e te la vorresti togliere, poi il gomito diventa scomodo, le palle e il pisello pure, via anche quelli e la gamba con quel ginocchio dolorante e il malleolo che tocca dentro il bordo del letto, via! Poi togli il busto che non respiri bene, sembri in apnea sott’acqua e desidereresti le branchie e ti accorgi che alla fine quelle due ore le dormiresti con solo la testa ghigliottinata dentro una cesta di vimini rivoluzionaria, dopo la presa della Bastiglia.

“Bonne nuit!”

“Dovrei prenderla una pastiglia…sonnifero…” penso, e sono le 5:32. Prima, sognavo di una stanza con gente deforme, gobba, sformata e mutante che mi toccava e mi cingeva continuamente, portandomi a spasso con le loro braccia multiple, bocche multiple, nasi deformi, bubboni, corpi devastati con carne a vista ed ero fin troppo sicuro che mi avrebbero contagiato con la loro grottesca apparenza, facendomi diventare brutto a mia volta, deforme e con le branchie, ancora, come loro…come se la parte più nascosta e reale che tengo dentro in sacche piene di acido gastrico cucite sottopelle venisse fuori, rivoltato come un calzino o un K-Way double-face o “dublefas!” che fa tanto francese; di nuovo me stesso, libero da barriere, brutto come sono davvero, cappello a cilindro, bastone, sorriso storto davanti allo specchio del bagno, orrendo ma vestito elegante, pronto a presentarmi di nuovo al mondo.

“Bonne soirée!”

Quando mi alzo, dopo quelle due ore di non-sonno passate a rigirarmi in un talamo scomodo con tutte quelle parti di corpo di colpo inutili, penso solo al cibo, con la speranza che i cereali siano davvero finiti per concedermi gustosi biscotti inzuppati nel latte, con gocce di cioccolato che si sciolgono, roba che in regime di allenamento estremo viene abolita ma se non c’è altro da mangiare d’altronde…magari…no…niente…ci sono invece…eccoli…il recipiente è stracolmo di fiocchi, si erge come un silos marchiato Kellogs sulla tovaglia a fiori che la odio quella plastica decorata, troppi girasoli.

Nel bagno dopo, deluso per i fiocchi d’avena, con la luce accesa e il buio fuori e il freddo leggermente percettibile, mi lavo, mi asciugo. Accendo il vecchio Caldobagno, che funziona ancora perfettamente nonostante l’età, sempre pronto ad aiutarmi nei momenti di parziale ipotermia, con quella sua sembianza da Darth Vader poco rassicurante.

Mi ci piazzo davanti, le mani sul volto e per un po’ gli occhi li tengo chiusi. Poi, comincio a guardare attraverso la fessura che ho lasciato tra le due mani, fissando la luce rossa accesa su quel bottone di plastica, con i bordi delle dita tutti sfuocati, ringraziando di avere un rovente e vulcanico Caldobagno trattato bene e che ‘funziona ancora perfettamente nonostante l’età’, sapendo che da ora in avanti i secondi, i minuti, i giorni, le settimane, i mesi e gli anni saranno sempre più freddi, come una nuova piccola era glaciale.

Sto lì, in quella posizione, ancora qualche istante…

Beh? Quindi? Qual è la morale?

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Pillola del 153° giorno – Pasqua

Stravaccato su una poltroncina con rotelle e tessuto verde mentre attendo che la stampante RICOH multi-accessoriata con scanner, caricatori multiformato, tamburi e slot colori singoli ad innesto rapido sputi fuori risposte cartacee ai miei input annoiati.

“Sai perchè ti sei sempre infilato in situazioni impossibili e complicate? Perchè hai paura di innamorarti davvero di una persona facile da raggiungere…è una cosa inconscia la tua” mi dice la segretaria con voce severa

“Sarà…magari è quello…e poi chissà se mi sono mai innamorato davvero…” rispondo, mentre gioco con una chiavetta USB piena di pezzi della mia vita.

“…quando ci penso…non ne sono davvero sicuro…” continuo.

Stravaccato su una poltroncina con rotelle e tessuto verde nel terzo giorno di pigrizia di fila, con un po’ di dubbi e di pensieri mentre gioco con puzzle a tinta unita che mi fanno uscire di testa. Devo concedermeli ogni tanto, tre giorni cosi, come faccio per l’insonnia che mi distrugge l’esistenza. Capita, a fine mese, che per tre giorni dorma come tutti gli esseri normali. Capita che dopo un mese di allenamento intenso, mangi pizza per tre giorni di fila. Capita e mi tiene sano di mente ricordarmi che a volte la forza di volontà, l’impegno, la sicurezza, le idee chiare si ritrovino disperse in un banco di nebbia, perse in un bosco, per tre giorni.

Negli ultimi istanti di lavoro, stavolta di giù, lontano dalla super stampante, fisso lo schermo svogliato e uccido un po’ di zanzare tigre. Mi passo la mano destra sui capelli da tagliare, sulla barba incolta e sento quel dolore che morsica il polpaccio. Penso che tanto manca poco alla mezzanotte e che da domani si ricomincia con un paio di pile nuove, cancellando le ultime settantadue ore e i lamenti dei muscoli e i puzzle e i pensieri.

Si, tre giorni di fragilità vanno bene.

Se li è concessi anche Gesù.

Pillola del 137° giorno – L’abito del monaco

Mentre confeziono nella noia degli ultimi minuti di lavoro un cuore fatto in filo di stagno, mi ritrovo a pensare a come io appaia alla gente, quando mi incontra. Di certo non sembro uno che confeziona cuori di stagno abitualmente, questo è sicuro.

Quando ieri camminavo tra la gente del corso, provavo ad immaginare di incontrarmi per caso sulla strada per vedere un po’ che impressione faccio, cosi, dall’esterno, a me stesso.

Ha senso?

Indosso una maglietta che mi sta diventando piccola, perchè da quando la spalla sinistra collabora un di più riesco ad allenarmi ogni giorno e questo mi fa sembrare ancora più grosso. Ci sto dentro a stento. Da fuori, un sacco di gente potrebbe pensare che occupo due-tre giorni alla settimana in palestra a pomparmi, per questioni di apparenza, per sembrare grosso e cattivo e far paura alla gente e provarci con le tipe sui tappeti da corsa. Potrei sembrare un tipaccio, uno psicopatico, “non ti conoscessi non ti vorrei mai incontrare da solo in un vicolo” mi dice un amico. Ma loro non sanno che ogni giorno, anche se stanco dal lavoro, mi ritrovo in una piazza, con la gente che prende l’aperitivo e che mi guarda come fossi uno scemo, a sudare e a resistere alla fatica e alle gambe che bruciano, alle braccia insensibili, appeso a sbarre, a muretti, a correre, saltare, ruotare le articolazioni anche quando piove, quando c’è freddo e la neve per terra, quando esco dalla ditta e il sole è sparito da due ore e tutto questo solo per amore del movimento.

Mi incrocio mentalmente sul pavè della piazza e penso che mi vedano serio, che non sorrido mentre cammino dritto e tutto questo riflette la prima impressione. Per loro è un “stanne alla larga” istintivo, ho la faccia di uno da non far salire in macchina se mi trovano a bordo strada che faccio autostop. Uno che non scherza perchè non ama scherzare, inutile farmi battute, sono un duro, cuore di pietra, anche se ne confeziono di stagno. Ma loro non lo sanno, la realtà è che non sanno che non sorrido solo perchè la mia faccia non mi piace cosi tanto quando mi viene da ridere. Non sanno che penso sia cosi anche per gli altri. Magari sbaglio, ma io mi vedo strano, mi sento strano, quasi un po’ forzato quando sorrido. Se mi dicono “ridi che facciamo una foto” ne esce un mezzo ghigno. Poi, bastano due minuti e mi metto a diffondere gioia per ogni stupidaggine mentre ne sparo una ventina pure io. Mi serve qualche minuto per carburare quella parte del cervello.

Mi osservo guardondomi dritto negli occhi e anch’io mi osservo, guardandomi negli occhi mentre mi passo a fianco. Ho lo sguardo tagliente.

Ha senso?

Capisco quando dicono che tiro occhiatacce, credo che da fuori sembra che io odi la gente, che sia costretto ad attraversare fiumane di persone per me insignificanti e che guardo con disprezzo. In realtà osservo tutto, fin nei minimi dettagli ed è perchè scatto mentalmente, come se avessi la mia Fuji sempre in mano. Ogni scena di vita per me è inquadratura, ogni dettaglio insignificante può nascondere del bello, e tutti quei dettagli e i gesti minimi, diventano anche le storie che leggete qua sopra. Non disprezzo, amo.

Se tiro le fila del discorso, ne viene fuori che io sembri davvero una brutta persona da fuori, da sobborgo di Caracas, che nasconde il ferro e fa affari loschi, picchia i bambini, maltratta le donne, pensa solo a se stesso, psicopatico.

La realtà è che faccio il designer, il fotografo street, lo scrittore, ogni giorno. Amo Bukowski e Murakami, mi commuovo con i film, non riesco nemmeno a schiacciare gli insetti che trovo in casa, devo riportarli fuori. Amo fare regali agli altri, ho bisogno degli altri. Adoro il mare, il rumore del fuoco, la luce che rimbalza sugli oggetti, ridere.

Ho sentito un sacco di giudizi riportati, sentendo voci, su di me. “Sembra uno stronzo” “egoista” “egocentrico”. Tutto da gente che mi ha visto una sola volta.Credo di essere abbastanza disastroso alla prima impressione.

Purtroppo la gente è davvero stupida mi dico. Però poi, penso a me stesso e a quante volte anch’io finisca per fare la stessa cosa.

Vorrei davvero provarci d’ora in avanti a non mettere mai più una persona in uno schedario dopo i primi quattro minuti.

Che alla fine anch’io quando sono ‘la gente’ sono stupido.

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Pillola del 135° giorno – Man in the box

 

Mi approccio alla scatola timbratrice per chiudere il giorno lavorativo.

Mi approccio all’ennesima scatola che mi comanda e che mi dice cosa fare, quando farla e senza spiegarti il perchè, ne di risposta ne di quelli pieni e veri, che contengono tutta la mappa delle direzioni e dei bivi con avvisi sonori stile autovelox nel GPS, quando la faccenda si fa complicata e pericolosa.

Sono stufo delle scatole. Quelle in cui vivo, quelle in cui metto il cuore e i ricordi e che finiscono in soffitta, quelle rumorose o troppo silenziose, come candide stanze d’albergo insonorizzate, vetri doppi, porte doppie, letto doppio, whisky doppio dopo l’ennesima riunione tra me e lui, il mio doppio.

Le scatole hanno pareti quadre e grossi coperchi quadri, spigoli vivi in cui si accumula sporco che non riesci a non guardare perchè li ci finisce anche l’ombra e il nero diventa solo più nero. Le scatole sono figlie di logica e geometria, ogni cosa inserita in un suo spazio con i suoi limiti fisici di peso, con il cartone che si piega e si rompe e si rovina quindi mai esagerare, mai, con le scatole.

Mi ci sono intrappolato in una scatola.

Tutta la pazzia e tutta la follia che metterei nella mia vita, nell’amore, nelle parole che scrivo stanno dentro una scatola che non posso aprire perchè mi dicono che non si può anche se poi cambiano idea, mi dicono che posso ma io ho paura.

Paura di fare casino. Ho sempre paura da quando sto nella scatola.

Quando è giorno, i profili si illuminano come neon, il cartone sembra cosi sottile. Quando piove, il coperchio si piega e temo che l’acqua lo sfondi, che si riempa come una piscina, che muoia affogato.

Quando cerco la libertà invece, scopro che le scatole non hanno porte, non hanno appigli, non hanno scalette.

Stai li e speri, che qualcuno passi di la, si chieda “ma cosa c’è qua dentro” e tolga il coperchio.

 

 

Le parole

Le soffitte sono la storia delle persone che le hanno abitate. Capita che trovi un numero di telefono di una casa in vendita, capita che ti incontri col proprietario, capita che per qualche motivo sia smanioso di farti vedere anche la soffitta. Capita che lui debba rispondere ad una chiamata riservata e si allontani e tu ti ritrovi tra la polvere, vecchie memorie sbiadite, e una grossa cassa appoggiata a muro. Sapete quelle casse semi-rigide, sempre di color rossastro/marrone, dalle pareti finissime e rinforzate sugli angoli da decorazioni in metallo opaco? Ecco quelle.
Se fossi stato in un film avrei soffiato via la polvere alzando una nuvola di scintille verso il fascio di luce che passava dalla finestrella lì a lato, ma di impolverarmi oltre non ne avevo voglia.

Se potessi parlare al tuo cuore

Se potessi parlare al tuo cuore gli direi che mi deve un casino di ore.
Se potessi parlare al tuo cuore gli direi però che non le rivoglio indietro.
Se potessi parlare al tuo cuore mi limiterei a sussurrargli.
Se potessi parlare al tuo cuore lo metterei in comunicazione con il mio, poi se le vedano tra loro.
Se potessi parlare al tuo cuore gli direi di sabbia, di mare e di aquiloni.
Se potessi parlare al tuo cuore ci brinderei al giorno in cui ci siamo conosciuti.
Se potessi parlare al tuo cuore gli direi che il tuo è il nome più bello del mondo.
Se potessi parlare al tuo cuore gli direi che sei il primo pensiero quando mi sveglio, e l’ultimo prima di addormentarmi.
Se potessi parlare al tuo cuore, forse, il mio si fermerebbe.
Se potessi parlare al tuo cuore gli parlerei di amore, di passione e di un uomo che a star senza, a momenti, ci muore.

Pillola del 112° giorno – Decimali

Un unico pensiero fino a quando riuscirò a prendere sonno, questa notte. Ne sono terribilmente certo.

Le ossessioni sono durissime, sono zecche. Prosciugarsi lentamente mentre nella testa c’è il rumore di un martello all’opera, che parte ovattato in lontananza per poi diventare forte, persistente.

“Persistente…non ci penso”

Lo dico facendo un respiro profondo, cercando un equilibrio ma il risultato è che ci pensi più di prima. Provi a pensarci con tutto te stesso allora, facendo il contrario, aspettando che il cervello si stanchi ma tutta quella energia diventa una stretta alla pancia implacabile. Come bere fuoco.

Forse c’è solo da fuggire e ritrovarsi troppo lontano per agire, sbagliare, aggiungere caos. Fare disastri. Perdere tutto. La via del codardo, che ho preso mille volte dopo le altre mille che ci ho provato, fallito, ricominciato, riprovato, fallito di nuovo e di nuovo, ancora e ancora.

Non so esattamente come succedano le cose, li, dentro la testa, poi nella gola e nello stomaco, nella pancia e in quei puntini sulla pelle quando senti un brivido. È possibile che tutto quel casino sia una specie di vento vorticoso che ti mischia l’alfabeto e il pensiero A diventa B e ti svegli che è cambiato tutto e nemmeno sai quando, perché, come. Magari in un sogno, dopo un’idea, con una stretta di mano o durante una telefonata, non lo sai. Butto via tempo in un impegno costante all’insegna di creare categorie, selezione precisa di cose da fare e non fare, cosa pensare e non pensare, schedario di persone e come comportarsi con loro ma si tratta solo di mucchietti di foglie separate, come nel prato davanti casa, autunno, rastrello in mano, nuvole nere all’orizzonte e brontolio sommesso del cielo. Basta un piccolo tempestoso vento di dubbio e incertezza per spazzare tutto, mischiare le carte in tavola. Pragmatismo, logica sono fatti per scontrarsi con istinto e sentimento e io sono animale. Cazzo, lo so già chi vince.

L’ho sempre saputo che i miei mucchietti sono solo castelli di carta. Non ci riesco a ragionare, risolvere equazioni, distinguere tra giusto e sbagliato, riuscire ad avere risultati esatti, senza virgole.

Quando esco tra di voi, tra la gente e ci vediamo, faccia a faccia, mi chiedo se lo noti  che tutto sta cambiando e che io sto cambiando, ancora una volta.

Il destino di una vita fatta di virgole e decimali.

Pillola del 110° giorno – La Flaca

Quando entro in questa piccola città nella città, fatta di blocchi grigi, sei la prima che saluto. Sei sempre stata la prima.

“La Flaca” di Jarabe De Palo suona in continuazione nell’agosto di un ragazzino un po’ troppo paffuto. Nel video c’è questa bellissima barista cubana che fa impazzire tutti e anche me, che faccio colazione guardando MTV.

Le assomigli.

Ti vedo a messa, la prima domenica. Sei abbronzata, capelli corti, vestito rosso a pois bianchi, seduta sul fondo a sinistra mentre io sono nascosto dietro la colonna a destra, per farmi i cavoli miei come al solito. Quando ti vedo capisco di essere innamorato.

Un paio di giorni dopo, era sera, ti conosco, con il resto della compagnia. Scherzo e tu scherzi, parte una sfida di corsa, il tuo sport e i giorni dopo a parlare, le mattine ad aspettare che la tua macchina arrivasse in paese. Ogni sera, vorrei ma non ti riaccompagno a casa, lo fa qualcun altro, un amico. Io non so cosa fare.

Mi fa male da morire. Anche se ci vediamo e scherziamo assieme nei giorni dopo, mi fa male da morire.

La mia estate è finita. C’è una grande “H” di fronte a me, sulla nave. Sapete, dove scendono gli elicotteri.
Sto li un paio di ore buone, mentre la costa si allontana e io mi sento triste come non mai, con il groppo in gola. Ma mi dico che c’è pur sempre l’anno dopo.

Anno dopo anno invece, rimango in silenzio,  aspettando chissà che cosa. Passa una vita e tutto cambia, ti rivedo ma non riesco a dirti nulla. Non posso.

A volte si dice “mi sembra ieri”.

No, non è così, mi sembra una vita parallela, di mille anni fa. Anche se ricordo tutto. Ricordo anche quando faceva male.

Fa male anche adesso che ti sono davanti.

Fa malissimo.

Pillola del 80° giorno – Non si esce vivi dagli anni ’80

Ho in mano una penna blu con scritto “superqualcosa”. Tamburello con il tappo mentre attendo che l’uomo che mi ha dato appuntamento si ri-materializzi. “Ri-” perchè mi ha ricevuto, mollato li con un lavoretto che dovevamo sbrigare assieme e ora lo attendo, per dirgli che ho finito, per congedarmi, per tornarmene a casa.

Giornata di sbalzi, tra temperatura Sahara dell’esterno e aria microartificiale nano-condizionata, di quella che sa di plastica, di quel freddo da bottiglietta spray che si sente che non è roba di madre natura. La trovo in macchina prima nel viaggio d’andata, poi in quell’ufficio dal pavimento simil-pietra di plastica, vetrate giusto appoggiate e fili pendenti tutti intorno, un cantiere più che una ditta. La trovo poi in stazione e in treno e di nuovo in macchina, ancora.

La odio.

Mi annebbia il cervello, mi toglie energie, mi fa pizzicare il naso e non voglio che mi rovini la giornata, che oggi è il giorno di diario numero ottanta, che io non l’avrei mai detto che ci sarei arrivato. Numero che ricorre diverse volte oggi e vi giuro che non lo dico mica apposta. Come Michela che mi dice di non auto-stressarmi che ho 30 anni mica 80, di stare più tranquillo insomma con la mia vita, la mia fretta innata o gli Afterhours che mi ricordano che non si esce vivi dagli anni ’80 anche se mi chiedo dove stia la novità visto che non si esce mai vivi da nessun decennio, che prima o poi muoiono tutti.

Pure io.

A meno che, come leggevo, quel pazzo russo che finisce per “owsky” o “olyev” non ricordo ma non è importante visto che sono tutti giovani, miliardari e fatti con lo stampino, non faccia davvero quella cosa di scaricare la coscienza sui floppy e farci rivivere come ologrammi dentro super-computer e cyborg anatomici, roba da uncanny valley.

Lo farei? Accidenti non lo so…sarebbe una scelta da veri perdenti quindi magari si….

Certo che vedere il futuro sarebbe figo eh, per quanto orrendo e distruttivo possa essere ma tanto da ologramma al massimo possono premere il bottone OFF ed evitare di sentire le mie cazzate del passato, il che sarebbe di sicuro meglio che morire di fame come succede ai giorni nostri che si sa, c’è la crisi.
Magari sarà un futuro alla anni ’80…war games, deserti postnucleari, città abbandonate, ratti assassini….

Prima…appena uscito dalla ditta, dopo l’appuntamento, sono andato ad esplorare quella sottospecie di villaggio iracheno che mi circondava….
Sono andato sul retro di un ristorante giappo-cinese, a proposito di ratti verrebbe da dire, a dare un occhiata ai vicoli nascosti di quel brutto paese, un assieme di muri sporchi, bidoni, biciclette, case diroccate, strade luride bersagliate dal sole cocente, asfalto grigio e a pezzi. Odore di carogna, fogna e qualsiasi altra parola brutta che finisce in “ogna”

Vi dirò…quei tizi degli anni ’80 avranno pur avuto un look pessimo ma ci avevano quasi azzeccato.

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Pillola del 79° giorno – Il treno

“Downbound train” del Boss nelle orecchie mi parla di amore, treni e vita. Esco mezz’ora dopo da casa oggi, in ritardo per il lavoro e quasi mi sembra di aver fregato il Truman Show perché in giro non ci sono le comparse della mia vita ne rumori in lontananza. Silenzio, caldo ed io che cammino. Il boss mi racconta che tornando a casa, dopo una corsa disperata, non ha più trovato la sua donna, con in lontananza il fischio di un treno in partenza. Lei è dentro quel treno, ne è sicuro. Lo ha lasciato.

Mi manca la stazione… prendere il treno dal mio paese. La verità è che sono malinconico…e mi mancano un sacco di cose, non solo due rotaie. Da piccolo, non ho mai chiesto di crescere o diventare grande, andava bene così. Troppo sognatore per realizzare che certi desideri non si realizzano, che c’è sempre un limite. Un bambino invece, può credere in tutto, senza dover iniziare a costruire qualcosa o dimostrare di valere a qualcuno, scontrarsi con le persone, con le idee, con la stupidità umana. Un bambino può ambire ad ogni cosa senza sembrare stupido, senza attirare odio o scherno. Può essere astronauta, ingegnere, scienziato o calciatore…è bello essere bambini.

Adesso è tutto diverso.

Certo, va a giorni, a volte sei disilluso e cazzo, non basta un argano da porto a tirarti su. Altre, hai una ferma convinzione tatuata a fuoco sulla pelle e spaccheresti il mondo. Probabilmente la realtà del tuo essere sta nel mezzo…ancora ci credi ma cominci ad avere paura anche se non sai di cosa o almeno, non ne sei sicuro…

Del fallimento…

O paura di non provarci nemmeno. Accontentarsi e un giorno pentirsene.

Oppure paura di riuscirci e poi perdere tutto, come il Boss, proprio adesso, nelle mie cuffie.

Il suo amore non c’è più mi spiega, il fischio del treno è lontano e lui non può più rincorrerla, è finita.

Si butta in ginocchio e piange.

Dopo il fulmine…

Senti una canzone alla radio mentre stai comprando un maglione grigio-topo invernale sottocosto nel solito negozio. L’inizio è fantastico con un riff ipnotico, giusto tre note e la batteria, quasi dolce, in attesa dell’esplosione, del crescendo che ti aspetti. Che non arriva. Il resto non funziona, non è la voce ma è qualcosa nella melodia che non ti convince, non ti piace, tradisce. Era solo l’aspettativa che avevi alla fine, nella tua mente suonava diversa, ti faceva sentire bene, pieno di entusiasmo per aver trovato un’altra canzone importante nella tua vita ed invece ti ritrovi a maledire te stesso per non saper nemmeno tenere in mano una chitarra, perché con quella intro ci avresti fatto un capolavoro, artefice della propria colonna sonora. Le mie storie di amore sono come queste canzoni, al ‘ritornello’ non ci arrivo mai e non importa quanto brillante, dolce, affettuoso io possa essere. Tutte, prima o poi, scoprono la mia parte lontana e malinconica. Credono sia colpa loro ma è solo mia e da codardo le lascio nelle loro convinzioni perché mi fa comodo non pensarci, mentendo. Sono strano, non ho nemmeno le scarpe per camminare su una strada terrestre e voglio la luna e non parlo di successo ma soltanto ‘vedere’ e ‘sapere’ cose che nessuno conosce per poi vivere per sempre visto che la morte e la vecchiaia mi terrorizzano. Forse è per queste che le mie donne devono essere sempre più giovani e belle mentre io divento sempre più vecchio e brutto e con il tempo, ed è inevitabile, le scopro inadatte a seguirmi nei miei mondi di fantasia e sogni troppo astratti per poterli spiegare. Quindi mi allontano, per non essere obbligato a diventare concreto e impegnato, per essere solo ma libero, perché chi mi segue deve rispettare i silenzi che mi servono, percepire il mio caos tollerandolo. Starmi vicino, ma alla dovuta distanza. Insostenibile, ingiusto, egoista. Insostenibilmente ed egoisticamente ingiusto, ed è inevitabile che ci si lasci anzi, che mi lascino con io che soffro per mesi, continuando a non capire cosa voglio, cosa sbaglio o meglio, cosa davvero mi serve.

Sembra un pensiero eccessivamente lungo, grammaticalmente scorretto ma che si riassume nella parola ‘insoddisfazione’. Non cronica, temporanea. Non pessimista, ma temporanea.

“Unavoltaemezza”

Ennesima mattina di lavoro che tristemente non è ancora abbastanza, prendo le chiavi da sopra il pianoforte antico che uso come armadio, dispenser, portagioie e migliore amico e la prima riflessione profonda che le mie sinapsi costruiscono è sull’incredibile capacità di quei pezzi di metallo di incastrarsi dentro anelli e portachiavi oltre che ancorarsi con invisibili ganci e punte a centrini ricamati vecchi di un secolo. Utilizzo la sacra tecnica del moto ondulatorio sbrogliatore, in pratica ‘agitare violentemente tenendo il mazzo per la chiave che ti serve’, scuotere con forza estrema, digrignando anche i denti se necessario, finché non si sente il tintinnio stile ‘mille grilli che rompono i coglioni a mezzanotte d’estate in aperta campagna’. A quel punto, con la mano ferita, perché è inevitabile, posso anche chiudere la porta.

Ma certe abitudini sbagliate non spariscono mai, come infilare le chiavi in tasca istintivamente.

Serpente umano

Qualcuno è morto e sono seduto in una stanza.

Ho parenti e altra gente di fianco, seduti su divani vecchi ma tenuti perfettamente da una maniaca dell’ordine e della pulizia. Tutto sembra cosi tristemente poco vissuto ed ovattato che mi sento una comparsa dentro un set cinematografico. Parlano di come sia successo mentre io non riesco a fare altro che fissare la tenda bianca che ho di fronte. Sento un messaggio che mi arriva sul cellulare ma non posso leggerlo anche se vorrei, perchè potrebbe essere lei. Faccio finta di andare in bagno con una scusa, mi chiudo dentro e leggo, al buio.C’è solo un rumore, sordo, che proviene dalle pareti come di un motore a bassi regimi o il condizionatore nella cucetta di una nave mentre dall’altra stanza sento delle grida, segno che la ricostruzione degli eventi prosegue anzi, ricomincia per l’ennesima volta. Mi lavo le mani mentre mi fisso allo specchio. Oggi sono decisamente poco attraente, stanco, le occhiaie profonde con i riflessi verdi che arrivano dalle piastrelle del bagno che mi rendono malaticcio, gli occhi più cupi del solito.

‘Faccio schifo’ è la sentenza.

Ritorno di là ma stavolta scelgo una sedia lontana, rinuncio alla comodità della poltrona in pelle per potermi fare i cazzi miei senza scuse. Attorno, continua la discusione fra gli affranti e al morto se ne aggiungono altri

“…si è impiccato da solo, ha dovuto inginocchiarsi per farlo…”

“Bucoschi”, scritto come si legge

Decido di iniziare a scrivere dopo il quinto rum.

Non so perché sia cosi, magari è genetico. Magari Bukowski faceva la stessa cosa, dopo il rum numero cinquanta. Certo che non sono al suo livello, né come alcolizzato né come scrittore, non posso scrivere di amori impossibili, violenze, fallimenti e vite incredibili. Vorrei farlo? Non lo so, mica è morto felice, è morto intenso. Dovessi scegliere morirei felice forse, sempre che da uomo stupido riesca a distringuere la felicità da una giornata meno schifosa del solito.

Morire intenso è questione di iniziare a piangere da piccolo e poi smettere da grande, anche quando le cose sono gravi, e lì significa che la vita ti ha davvero picchiato forte mentre le esistenze di noi persone normali sono davvero noiose anche se noi crediamo che i nostri amori siano bellissimi e impossibili, i drammi tremendi.

Sono tutte cazzate…

Dualismi

Lobo destro e lobo sinistro che si scontrano come schieramenti politici in campagna elettorale, in una estrema lotta per prendere una decisione che solo il tempo potrà dire se giusta o sbagliata. Dati, variazioni, sensazioni, ricordi, messaggi testuali che scorrono nel cervello creando collegamenti e supposizioni, pareri discordanti ad intervalli di microsecondi, variazioni dell’umore, sentirsi forti e poi deboli, voler piangere o voler ridere in faccia al mondo, fregarsene e volersi innamorare perdutamente, calcolo di variabili, razionalità, film mentali con sceneggiatura puntigliosa e razionale, spaccato di un futuro certo e grigio, triste e solitario o stralci letterali semi romanzeschi con tanto di happy ending, i girasoli fuori dalla finestra, giornata luminosa, la staccionata bianca, i prati verdi, cielo terso, un bambino, lei con un vestito bianco a fiori in un giorno ventoso.

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