Conservare in un luogo fresco e asciutto

Mese: Settembre 2013 Pagina 1 di 3

Pillola del 156° giorno – Il costume

Bhe, direi che ci siamo.

Mentre tutto il resto d’Italia si è goduta l’ultima settimana di estate e sole, qua da me è tutto molto chiaro da tempo ed oggi, comincia anche a fare freddo sul serio, che lo senti nelle mani e nel petto, quando esci la mattina in felpa e ti accorgi che non basta più. Tempo venti minuti e sarò ad allenarmi nella solita piazza, ma nei tavolini del bar non ci sarà nessuno, le piastrelle in roccia rossa saranno gelide, l’altalena bagnata e ad ogni trazione, un litro di acqua mi entrerà nel colletto costringendomi a brutte imprecazioni. Circondato da sbarre più scivolose di un’anguilla addormentata e muretti viscidi, con i piedi zuppi per ogni fottuta pozzanghera nascosta dietro l’angolo.

Ho tirato fuori la felpa grigia con cappuccio per il primo vero allenamento autunnale, un’occasione speciale. Ci sto dentro tre volte ed è la stessa con cui ho iniziato a correre quando ero 107 kg di ciccia e che continuo ad usare trenta chili e tre anni dopo. Mi hanno detto mille volte di buttarla, visto che quando ce l’ho addosso sembro una tenda da campeggio afflosciata , ma non ci riesco. La vedo e mi ricordo gli inverni passati a correre sotto la neve e l’impegno e la fatica di ogni santo giorno, con i talloni distrutti, il fiato che spariva dopo un minuto e una specie di katana nella milza. Ma tre anni dopo, che tutto è cambiato, mi ricorda anche che se ce l’ho fatta da depresso ciccione del cazzo posso farcela sempre o almeno provarci, in qualsiasi cosa, sempre.

Si insomma, mi fa sentire forte questa felpa, anche se è larga ed entra aria fredda in mille punti diversi, anche se non è di calzamaglia e non è blu con una S davanti, anche se ha solo un cappuccio ma nessun mantello rosso.

Un costume per supereroi sobri.

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Pillola del 155° giorno – Domenica

Scrivo del cliché della domenica pomeriggio passata sdraiato da qualche parte. Ci cado pure io oggi, Cristo.  La mattina, mal di testa nell’angolo sinistro, stomaco in subbuglio e shopping compulsivo per cercare di farmi passare i disturbi e poi perché invece di drogarmi come ogni buon giovane in carriera preferisco comprare vestiti. Una felpa per la testa, una maglietta per lo stomaco ma nulla, l’attesa in fila per pagare e una tizia che canta “…this night we should be more than friends…”.aggiungono peso alla situazione e ai pensieri del cervello. Che poi, mi accorgo dell’errore, che la maglietta ci sta ma la felpa la potevo evitare, ma quando Sorella mi dice che qualcosa che scelgo le piace, non posso fare a meno di comprarla. E poi è verde, verde mica c’è l’avevo. Dentro al Lupo ora, verde pure lui e le gocce che cominciano a sbattere sul parabrezza che prefigurano una giornata chiuso in casa. Calcio in tv e pesce impanato di sale a pranzo e poi dormo e quando  mi sveglio sento Sorella che dice “Ti devo ricordare tutte le domeniche pomeriggio passate a guardare quel programma dove gli aerei si schiantano?”
La domenica è un problema largamente diffuso, la tv vomita inutilità più del solito e si finisce sempre a soffrire di malinconia dalle 17 in poi, in attesa della nuova settimana, schiantati da qualche parte. Un sacco di gente la vive così e anche a me ogni tanto tocca.

A dirla tutta, visto che di parla di cliché, il lunedì non è nemmeno così terribile secondo me.

Lo preferisco, alla domenica.

Pillola del 154° giorno – Il dolce ticchettio

Non so cosa scrivere, ed è il tipico momento in cui senti che arriva il sonno e i discorsi si fanno meno fluidi e più tormentati. Ti addormenti solo un po’ e ti risvegli continuamente e l’occhio è sempre un po’più chiuso e la pioggia picchietta sul parabrezza della macchina insistente e non sai perché, ma sembra il rumore più dolce del mondo e te lo immagini come gocce sulle tegole, una domenica pomeriggio, fuori freddo, dentro caldo, coperta, libro e ogni tanto sonnellino. Bello, non mi succede da un po’, da quando fare foto sotto la pioggia è interessante, da quando allenarsi sotto la pioggia è una sfida, da quando i giorni di film e coperta sono aboliti e il perché nemmeno lo sai anche se lo decidi te. Bello, quando eri piccolo e andava bene addormentarsi in macchina, appoggiare la testa sul vetro, aspettare il momento in cui la serranda del garage si apre e quella vecchia Uno Sting grigia metallizzata targata VA 99543 si rifugia dentro e tu capisci che è il momento di scendere ma non vuoi e allora fingi di essere ancora addormentato. Bello, chiudere gli occhi ora, ripensare a tutte le cose altrettanto belle, alle gambe nude lunghe e affusolate che compaiono e spariscono così in fretta dietro angoli o dentro locali, al futuro che vuoi in uno stato di dormiveglia così dolce.

Bello si, ma la macchina si ferma, la pioggia fredda sulla testa che ti sveglia, portiere che si aprono e si chiudono…non è ancora finita la notte.

Ma non c’è da lamentarsi.

Sarà bello.

Emarginato

Forse non c’è droga peggiore della musica, soprattutto ascoltata con auricolari in-ear che arrivano a tre millimetri dai timpani. Diventi un cazzo di sordo emarginato.

Tipo, vado ad allenarmi qualche giorno fa. Metto l’ipod nella tasca sinistra ma gli auricolari funzionano male, le note saltano da destra a sinistra e io da una parte non ci sento quasi nulla. Ad ogni metro di corsa è un continuo ping-pong di voci che rimbalzano nel cervello e il nervosismo che cresce perché è come parlare al telefono dentro una galleria. Cerco di non farci caso, corro un po’, imprecando contro la Philips e tenendo l’ipod in mano in posizione innaturale, come un bicchiere troppo pieno. Tutto per far funzionare decentemente quei dannati fili bianchi e subisco le occhiate di quelli che mi incrociano. Sembro un folle. Arrivo nella piazza, circondato da palazzine, bar con tavolini all’aperto, bambini che giocano, polizia locale e gente che entra in comune. Di solito mi alleno un paio d’ore e le mani mi servono libere.

Duro giusto dieci minuti.

Pillola del 153° giorno – Pasqua

Stravaccato su una poltroncina con rotelle e tessuto verde mentre attendo che la stampante RICOH multi-accessoriata con scanner, caricatori multiformato, tamburi e slot colori singoli ad innesto rapido sputi fuori risposte cartacee ai miei input annoiati.

“Sai perchè ti sei sempre infilato in situazioni impossibili e complicate? Perchè hai paura di innamorarti davvero di una persona facile da raggiungere…è una cosa inconscia la tua” mi dice la segretaria con voce severa

“Sarà…magari è quello…e poi chissà se mi sono mai innamorato davvero…” rispondo, mentre gioco con una chiavetta USB piena di pezzi della mia vita.

“…quando ci penso…non ne sono davvero sicuro…” continuo.

Stravaccato su una poltroncina con rotelle e tessuto verde nel terzo giorno di pigrizia di fila, con un po’ di dubbi e di pensieri mentre gioco con puzzle a tinta unita che mi fanno uscire di testa. Devo concedermeli ogni tanto, tre giorni cosi, come faccio per l’insonnia che mi distrugge l’esistenza. Capita, a fine mese, che per tre giorni dorma come tutti gli esseri normali. Capita che dopo un mese di allenamento intenso, mangi pizza per tre giorni di fila. Capita e mi tiene sano di mente ricordarmi che a volte la forza di volontà, l’impegno, la sicurezza, le idee chiare si ritrovino disperse in un banco di nebbia, perse in un bosco, per tre giorni.

Negli ultimi istanti di lavoro, stavolta di giù, lontano dalla super stampante, fisso lo schermo svogliato e uccido un po’ di zanzare tigre. Mi passo la mano destra sui capelli da tagliare, sulla barba incolta e sento quel dolore che morsica il polpaccio. Penso che tanto manca poco alla mezzanotte e che da domani si ricomincia con un paio di pile nuove, cancellando le ultime settantadue ore e i lamenti dei muscoli e i puzzle e i pensieri.

Si, tre giorni di fragilità vanno bene.

Se li è concessi anche Gesù.

Pillola del 152° giorno – Letargo

Questa pagina di diario oggi sarà corta per scelta e non per pigrizia anche se lo ammetto, negli ultimi due giorni pigro lo sono eccome che non mi alleno, non esco, ozio e guardo tv sotto luci ambrate mezzo addormentato sul divano mentre rinvio appuntamenti, declino inviti. Mi viene quasi voglia di andare a dormire presto, mi viene voglia di escludere il resto del mondo, mi viene voglia di darmi malato ad ogni compito, domanda, impegno che mi riguarda. Forse sono malato davvero, mononucleosi tipo. Oppure, quel mal di pancia e quella tosse si stanno per trasformare in qualcosa che mi farà dormire e dormire, piano piano, sempre più ore e una volta sveglio, sarà già tempo mare. Letargo, il che sarebbe un peccato, che la vita è così breve.

Come questo pezzo, ma più interessante.

Pillola del 151° giorno – Senior

C’è un nuovo membro del team a lavoro, in prova. Ricorda vagamente Nosferatu.
Me lo sono ritrovato vicino di postazione stamattina, quando mi sono presentato con due ore di sonno addosso, auricolari nelle orecchie, tosse, bestemmie e insulti per tutti al posto del tradizionale “Buongiorno stronzi”.

Lo trovo gracilino. Ha cinquant’anni e dovrebbe essere il nuovo capoccia del settore tecnico, un ruolo decisamente infame qua da noi, perchè devi avere a che fare con il capo supremo, una specie di genio completamente pazzo plasmato nel caos. Appena si alza in piedi parte il mio scanner automatico per i personaggi. E’ alto, dinoccolato, magrissimo e con l’attacco delle gambe decisamente troppo sopra la media. Faccia dura e affilata, piena di spigoli e cavità, capelli radi e spettinati, niente fede al dito. I pantaloni gli svolazzano un po’ anche perchè di vita e di gambe è strettissimo e la cintura fa quattro giri per stringere i jeans a quel manico di scopa…sembra un pallone aerostatico al contrario. E le spalle…larghe meno di un manubrio da BMX per bambini. Indossa una felpa insolitamente piccola e che con quei pantaloni maldimensionati lo fanno sembrare un livello di tetris che sta finendo male. Io me lo immagino da subito con addosso una salopette in jeans con i bretelloni che stanno quasi sospesi sulle scapole e delle scarpe enormi, non so perchè.

Ultimamente faccio troppo il figo per presentarmi alla gente per primo quindi, dopo l’analisi e l’archiviazione, mi siedo, dico due cazzate a Teo e mi isolo dal resto dell’officina ignorando gli altri animali, che non ho voglia di parlare con nessuno oggi e tantomeno enunciare il mio nobile nome ad uno sconosciuto. E’ la mia capa a farlo, tre ore dopo essermi seduto e che mi presenta come il ‘grafico-designer che va e viene quando gli pare’. Calza a pennello. Gli stringo la mano, sorrido, dico anche “buon pomeriggio” e ammetto con me stesso di essere davvero uno stronzo quando mi ci metto.

Nelle ore successive nell’angolo tecnico regna il silenzio…di tomba, di cripta, vampiresco e nosferatico…il che è una novità per un posto in cui non mancano insulti, barzellette, gossip e battutacce a sfondo sessuale ogni dodici secondi. Non so…pare evidente a tutti che regni diffidenza e freddezza tra di noi anche perchè ad ogni tentativo di instaurare comunicazione si viene subito stoppati nell’entusiasmo con movimenti di testa appena accennati e risposte a -13 dB.

Non ci siamo abituati…siamo troppo simpatici per essere ignorati…e anche modesti. Io e Teo ci ritroviamo spiazzati.

Vedete…il precedente ‘Senior Designer’, un pancione di quarant’anni che un bel giorno ha tentato di fotterci tutti i segreti industriali, dopo tre minuti di conoscenza si era subito lanciato in racconti hard delle sue gesta da Casanova lombardo con una trippona di 110 chili raccattata in un pub e regolata sul cassone del suo pick up. Ogni giorno c’erano aneddoti sul suo passato da puttaniere incallito, sulla moglie dalle tette giganti, sulle donne degli altri raccattate la sera nei centri commerciali, sul figlio di dieci anni per cui lui non aveva nessuna considerazione ma che gli dava spudoratamente dell’oritteropo in faccia, uno degli animali più brutti della storia che se uno crede nella bontà di Dio dopo averlo visto ci ripensa.

Questo niente…lavora, lavora, tossisce, lavora, va in bagno 32 secondi ogni 10 ore, non beve caffè, non dice battute, non parla, lavora lavora. Di certo, ha un paio di caratteristiche che il mio capo predilige perchè, come dice Teo, lui i dipendenti li vorrebbe orfani e soli cosi che non abbiano nessuno da cui andare la sera o a cui vogliano bene. Li vuole antipatici, cosi che non abbiano amici, anoressici cosi che possano anche saltare la pausa pranzo ogni tanto e brutti, cosi che nessuna donna li cerchi. Se si accontentassero anche di vivere con uno stipendio da fame sarebbero perfetti. Ecco, questo di certo non è l’individuo più socievole di questa terra e le occhiate annoiate di Teo sono una risposta più che evidente, non sarà mai un compagnuccio di giochi.

Io però devo ammettere che mi sta quasi simpatico e non so perchè. Credo mi faccia tenerezza con quella vocina gentile e dimessa quasi sussurrante, troppo da pesce fuor d’acqua.

Vedete…questa ditta bisogna saperla prendere, soprattutto se devi comandare un po’ o se non vuoi soccombere. E’ una ditta per chi ha personalità e un alto grado di sopportazione alla pazzia. Qua regna il caos supremo, ci si insulta, si manda al diavolo il prossimo, si fanno battute sconce, si sentono le frasi più raccapriccianti mai create dall’animo oscuro dell’umanità, si fanno miracoli tecnici, si fanno disastri da recuperare all’ultimo secondo e più sei pazzo più stai in alto nella piramide e il ‘faraone’ è il più fulminato di tutti. Ecco, è una specie di casa di cura dove i pazienti fanno lavori socialmente inutili e in tutto questo…bhe, questo ingegnere mi sembra davvero troppo calmo e normale per fare il paziente insieme a noi però bho, non si sa mai…

Cioè, magari è il dottore.

Pillola del 150° giorno – Toilette lounge

Due mostri meccanici mi fanno da scorta appena esco dal cancello. L’odore del catrame è così forte e penetrante che quasi riesco a sentire le singole particelle che perforano i polmoni. Trattengo il respiro finché posso mentre esco al sole e mi avvicino al Lupo.

In macchina, con la frizione così consumata che anche la partenza in piano è un problema. Quando arriviamo al palazzetto, una folla di quindicenni dal culo perfetto di cui potrei essere il padre, ragazzini mal vestiti di cui potrei essere il padre e nessuno che potrebbe essere mio padre a parte un tizio alto con barba bianca, capelli da Einstein e un cartello “COMPRO BIGLIETTI” appeso al collo. Cammina con le braccia dietro la schiena tra le bancarelle piene di materiale contraffatto e ha l’aria di uno che di biglietti non saprebbe che farsene. ‘Vuole una poltrona e un telecomando’ penso, dovrebbe cambiare cartello.

All’entrata, scanner analizzano il mio biglietto  che fa “DEEENG” e non “BLIIIP” come quelli buoni e già sono pronto alla beffa ma dopo tre tentativi andati al male mi fanno entrare lo stesso. Non hanno voglia. Prendo posto vicino al palco con gli altri e andiamo in bagno a turno per non lasciare spazio ai nemici. Dentro la toilette maschile, porte rosse, lavandini scassati e la tipica trafila di gente. C’è chi si lava le mani prima e dopo, chi solo dopo, chi mai. Sto lontano dagli ultimi mentre io sono uno di quelli che se li lava solo dopo che tanto, nel tragitto che porta fino al cesso sei costretto a toccare tanta di quella roba che sei fortunato a non morire. Invece all’uscita, se sei bravo, puoi sfruttare rubinetti lasciati aperti e soffioni caldi poco sfruttati e ridurre al minimo il contagio.

Torno dagli altri, e la cronaca delle successive sei ore di festa si riassume in noi in piedi che ascoltiamo musica, fighe troppo giovani che mi ballano addosso e una gran stanchezza finale, magliette sudate, amori fast-food e fischi nelle orecchie.

Ritorno, uscita da un parcheggio con gente che combatte come se avesse le bighe alla Ben Hur. Noi siamo disidratati come patate del McDonalds perché nessuno si è ricordato di portare acqua o cibo e quindi dopo 42 km finiamo nel Vulcano, autogrill di lusso con i soliti costosissimi panini insapori e commesse scorbutiche. Mi riempo di liquidi e mangio un panino che dall’aspetto prometteva molto meglio. Cotoletta, pomodori ed insalata tutti con lo stesso sapore ma di colore diverso. Prima di provare a tornare a casa però, c’è da visitare la toilette lounge, tanto reclamata sui muri del locale. Immaginatevi una sala moderna, tutta corian, piastrelle di lusso e pannelli verdi lucidi semitrasparenti che fanno tanto bagni aziendali a Manhattan. C’è un sensore che spruzza il sapone, uno che spruzza acqua e per ogni lavandino uno spruzza-aria super sensoriale, tutto sopra piani simil-pietra e vasche disegnate dal progettista dell’Enterprise che fa sembrare tutto molto costoso. Mi attendo l’addetto delle pulizie in frac. Dentro il loculo per le cosacce, attendo che un sensore mi abbassi la zip ma non succede nulla, c’è solo quello dello sciaquone che si attiva al minimo movimento. Ancora non mi sono avvicinato che si è già attivato cinque volte, in sfregio ad ogni norma anti spreco. Mi chiedo che bisogno ci sia di fare dei bagni così, in realtà. Si, belli, ma secondo me al mondo c’è davvero troppa poca gente che si lava le mani, che usa acqua e sapone. Dovrebbero fare un bagno con degli alberi e delle siepi ecco.

Arrivo a casa con questa idea geniale in testa, una “Toilette Nature” dove pisci dietro arbusti pieni di sensori. Tra un film mentale e la pubblicità mentale però, noto che in queste dodici che manco da casa, hanno tappato il giardino zen con asfalto fresco per tutta la via. Le colate d’olio arrivano fino al cancello e ancora, l’odore di catrame pungente. Chissà ogni boccata di questa puzza a quante sigarette equivalgono.

Apro il cancello, sgombro dai titani di metallo e vado in casa. Trovo nel forno una insolita frittata con le patate. La mangio. C’è dell’acqua. La bevo. Mi lavo i denti, con il mio rubinetto senza sensori che butta fuori acqua. Sento nelle gambe questa mezza giornata fuori casa, lo ammetto.

Tossico, anche oggi niente farmacia.

Non vorrei che sia colpa del catrame.

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Pillola del 149° giorno – Colpo su colpo

La tosse non se ne va.

Mi sono spalmato il corpo di timo ultimamente…sul petto, sotto il naso, sulla fronte, come se fossi un turista tedesco il primo giorno di mare. Con questo classico rimedio della nonna per un po’ è andata meglio ma da due giorni…è tutto come prima.

E’ più di un mese che me la porto dietro, a volte diventa cosi forte che mi fa male anche il petto, a volte invece è solo tosse fastidiosa, che picchietta in gola, come se uno gnomo facesse solletico sulle pareti con una penna di gabbiano. Perchè di gabbiano? Perchè mi sta sul cazzo, il gabbiano.

La mia noncuranza mi impedisce di uscire e andare in farmacia a comprare caramelle miracolose o altre puttanate medico-chimiche per alleviare il problema. Sciroppi, gomme da masticare, non so, uno di quei rimedi ufficiali con scritto “attenzione è un medicinale tenere lontano dalla portata dei bambini”. Ci penso per un’istante e poi me ne dimentico e sono cosi troppo noncurante che nemmeno chiedo ai miei o a mia sorella o al vicino di casa di pensare loro, alla mia salute. Arrivo a sera e mi accorgo che anche quel giorno avrei dovuto fare qualcosa per questa tosse, che secondo me non fa mica bene tenersela per cosi tanto tempo dentro che magari che ne sai, non è altro che un vero proprio organismo che incuba e cresce e che mi sbucherà dal petto stile Alien mentre mangio degli spaghetti sul tavolo bianco della mia casa spaziale.

“Uff…”

Ci sono giorni ‘bene’ e giorni ‘male’. Sabato, dopo l’allenamento, ad ogni colpo di tosse sentivo tutti i dolorini da acido lattico che venivano amplificati. Sotto lo sterno, negli addominali, nelle spalle. Appena finito, ho cominciato a sentire quel cazzo di prurito in gola, dove sta lo gnomo. “Non ci pensare” mi dicevo, ma non pensandoci ci pensi ed ecco ancora più prurito. Un respiro un po’ più profondo del solito e parte la tosse e dopo il primo colpo, come applausi dopo una gag , arriva la grandinata di colpi in grande stile.

Non so…non sono intasato, non ho raffreddori, mi alleno e sto bene, respiro alla grande ma appena mi fermo ritorna.
Forse è psicosomatico, è tipo un granello di pazzia che si è rifugiato nella trachea cadendo dal cervello e che si innesca quando ho tempo per pensare. Forse è il diavolo che non vuole che abbia tregua, quando la tosse mi tiene sveglio anche di notte.

Tossisco adesso….abbastanza forte.

Forse è semplicemente ora di passare in farmacia.

Pillola del 148° giorno – Palude

Faccio una camminata per il mio paese sotto un cielo coperto che mi risparmia da un sole ancora estivo. “Mio”…un aggettivo decisamente esagerato. Non mi sento parte di questo buco grigio, come il rapporto tra un agente commerciale e le mille stanze di Motel in cui dorme lungo le autostrade. Una stanza sconosciuta ecco cos’è, da due stelle, carta da parati orrenda, vista sulla provinciale 76, il frigobar…non si apre.

Squarciato a metà da una ferita senza fine che lo divide in due, una strada di rottami e ghiaia che lo attraversa, barriere di cemento ai lati, senso di desolazione e disastro. Dovrebbero esserci binari e treni e gente che sale e scende e che si incontra, si innamora e si ama, ragazzi che deturpano muri con graffiti e spaccano gli schermi della stazione ed invece ghiaia e desolazione e ponti sospesi e sgraziati che attraversano tutto, una Venezia di terra e rifiuti. Dicono che non ci sono soldi e che ogni mattina gli svizzeri si svegliano, vanno nel cantiere e aspettano che arriviamo anche noi, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Dicono che negli antri bui di quei tunnel sommersi da acque scure ci sia arsenico e i veleni dell’uomo e che ora è tutta una palude maledetta. Piena di mostri.

La ferita non ha cambiato nulla, tonnellate di roccia e terra sollevati ma nemmeno una pietra spostata negli animi con la gente continua a non uscire e a non salutarsi, a vivere in loculi protetti da siepi e cancelli e chiavistelli su porte e finestre blindate che accidenti, rubano anche di giorno e stuprano di notte e le parole sono fredde come il ghiaccio e i pensieri quelli veri sono in codice indecifrabile. Mancano le piazze e le feste sguaiate, i mercatini, le mamme con i passeggini e i vecchi negozi di una volta con i vecchi grassi e simpatici. Rimangono ferite sull’asfalto e verde umido e selvaggio.

Passo sotto i portici e i cartelli vendesi attaccati sulle vetrine di locali abbandonati sono scoloriti che tanto chi compra ormai, sembra tutto un oratorio abbandonato e tutta la gente dentro l’unico posto con vita dentro, il bar, è grigia e storta.

Non so, non ricordo se sia sempre stato così, se da bambino era diverso, se c’era la gente in giro. Non ricordo se ti segnalavano come individuo sospetto quando uscivi con la nebbia, se fosse normale che i nomi dei vicini nemmeno li conosci adesso. Parchi e aiuole tristi e non ci sono panchine, nemmeno.

Non mi fido di un posto senza posti interessanti in cui sedersi quindi torno a casa. Fra poco pranzerò. Appena finito, penserò sul da farsi ma non credo uscirò di nuovo.

Non ne ho voglia.

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Pillola del 147° giorno – Autunno

I cereali della Kellogs sono decisamente più buoni di quei pezzi di cartone dell’Esselunga quando li metti nel latte. Rimangono croccanti e dolci e non si trasformano in una pappetta sfatta. Concludo la colazione con una fetta tagliata da un dolce fatto a rotolo con sopra cioccolato bianco. Niente pane nero, niente marmellata di arance amare. Bicchiere d’acqua finale ma non mi basta e ne prendo un altro e un altro ancora. È la prima colazione di autunno il che vuol dire che  odore di castagne, pioggia, tappeti di foglie, nebbia, giornate corte e felpe da tirare fuori stanno per arrivare.

Adoro le felpe, i cappucci e le giacche da mezza stagione, mi fanno più figo il che fa bene alla mia autostima di individuo single alla ricerca dell’anima gemella o meglio, di un’altra ancora dopo quelle perse e quelle impossibili da raggiungere e l’autunno è propizio secondo me, mi mette in uno strano stato di pace per cui che le cose vadano bene o male a me frega un cazzo.

Sono contento che dopo quel brutto periodo in cui non c’erano più le mezze stagioni siano tornate di moda.

Pillola del 146° giorno – Hydra

Quindi si, mi ritrovavo dietro un loculo con schermo ad ammazzare zanzare, in una specie di lotta all’ultimo sangue, il mio per il loro. Ogni trofeo finiva in uno spazio bianco cosi che risaltassero le righe chiare su quel corpo nero allungato e totalmente alieno, cosi micorospico e fastidioso.

“Ma come pungono cioè…il pungiglione…l’imbuto che sta davanti, se lo schiacci è molle…cos’è…una specie di erezione?”

Diventa duro e si infila come uno spillo forse oppure no, vedono talmente piccolo e dettagliato nel loro micromondo che il più minuscolo dei pori diventa un pozzo petrolifero e la mia pelle ormai bianchiccia è linda sabbia del deserto e i peli sono alberi morti per il caldo e loro non sono altro che ricchi sauditi che estraggono dal mondo, e il mondo sono io, e loro estraggono estraggono mentre il mondo che sono io cerca di ucciderle, una dopo l’altra con manate, ventate, pugni forti, battimani, pannelli di plexiglass, fogli di carta, biglietti di un concerto stampati da una stampante troppo usurata.

Quando conto i miei trofei li, su quel foglio bianchiccio come la mia pelle che è lindo deserto e conto i morti tutto soddisfatto, con la luce dello schermo che mi deforma la faccia e gli zigomi diventano montagne e le occhiaie sembrano voragini e l’autunno oramai incombe sulla mia testa cosi lucida, con quelle luci al neon che corrono per le rughe come fiumi, ecco che vedo che tutto sommato che se io ora sono il mondo infastidito, ecco, allora, siamo circondati da un sacco di zanzare succhiasangue, succhiavita, succhiafelicità, succhiasperanza, succhiasoldi, succhiacazzi nel mondo quello vero e grande, quello che non sono io, quello che cerca di schiacciarci e mandarci via a suon di tempeste, uragani, vulcani in eruzione, depressioni e crisi economiche.

Milioni di zanzare alte basse, belle e brutte, vestite di stracci o Armani, armate di fucili automatici o di pugni o di parole, eleganti e gentili, raffinate, subdoli, che insegnano a scuola, che non imparano nulla, che ami, che scopi, che saltano all’asta, che battono aste, che bevono, si ubriacano e fingono di divertirsi e che ti tradiscono o che tu tradisci quando diventi zanzara. 

Zanzare che non puoi uccidere. 

Ci provi, gli stacchi la testa e il pungiglione e subito ne escono altre due.

Zanzare hydra.

Pillola del 145° giorno – ONE POUND

Sveglio, dopo una notte in cui ho sognato di essere uno a letto che cercava di addormentarsi senza riuscirci e che si svegliava continuamente, imprecando contro Dio. Come se mi fossi addormentato due volte, come se mi svegliassi stanco il doppio.

L’ora e mezza di trasferimento verso Milano che ne consegue, in realtà, è una palla mortale. Niente consueto libro di Charles sottomano che dannato me, l’ho messo sopra il pianoforte in modo da notarlo e raccattarlo prima di uscire ma si è ritrovato sommerso da volantini dell’Unieuro. Dimenticato. Vengo salvato solo dal fedele ipod e da un paio di tizi pazzoidi e che parlano da soli sul sedile a fianco.

Finchè non arriva lei.

Mi si siede vicino, magra anche troppo, capelli corti, viso bellissimo. Ogni volta che si muove mi tocca dentro con il braccio, poi lo appoggia completamente e rimaniamo in contatto per trenta minuti buoni senza che nessuno dei due si stacchi e tutto questo mi ricorda tanto quel racconto di Charles in cui si trova a contatto con una sconosciuta per un intero viaggio in pulman, senza scambiarsi neppure una parola, solo lievi contatti con il piede e l’eccitazione di Charles che sale, quel suo vederlo più intimo, sensuale e sconcio del sesso stesso. Quando arriva la sua fermata e si alza, appoggia tutta la schiena sul mio braccio per sfilarsi la maglia, in un movimento da sinistra a destra, senza separarsi da me. E’ un turbamento strano. Ora capisco cosa intendeva quel vecchio ubriacone.

***

Sotto il cavallo di bronzo mentre leggo perchè si, sono passato in libreria visto che ero in anticipo per comprarmi un libro per il ritorno, anche se in realtà ne ho presi tre. Aspetto un’amica che arriva puntualissima, raggiante e bella come il sole, una buona scusa per non andare a lavoro una mattina altrimenti normale di un giovedi mattina assolato penso. La saluto. Colazione a base di spremuta d’arancia che non so voi, ma io erano anni che non ne bevevo una. Mi riporta un sacco di ricordi di decine di arance sterminate sopra uno spremiagrumi rosso dal quale si riusciva a stento a recuperare due miseri bicchieri, aspra e con grumi e semi. Io piccolo in attesa, mio nonno, mia mamma, tovaglia rossa. Deliziosa.

“Due cubetti di ghiaccio?”

“Mmmh, me lo consigli?”

“In che senso?”

“Bhe, sembri sapere qualcosa che non so”

“E’ più fresca…”

“Mi hai convinto”

Parliamo circa sei mezz’ore di ogni cosa, una specie di Curriculum della vita dalla nascita fino al momento in cui ci siamo visti questa mattina e questo fino ad ora di pranzo, con il tempo che vola letteralmente. A malincuore la saluto, lei sale su un tram preso d’assalto, io ritorno verso la stazione a piedi, circondato da stand modaioli, modelle troppo magre, modelli troppo alti, tappeti sulla strada troppo comodi, uomini d’affari che ridono e fumano, barboni che chiedono spiccioli, promoter che spruzzano profumi a chi le si avvicina, come se fosse spray al peperoncino per stupratori. Mi allontano dal centro con sollievo e mi infilo a mangiare un panino pollo e maionese che fa letteralmente schifo. Dei piccioni mi osservano con fare curioso e io lascio li il pranzo per terra e mi allontano. Con la coda dell’occhio noto che anche i pennuti non sembrano molto convinti della mia scelta.

***

Cesso della stazione. Solito vecchio che raccatta i cinquanta centesimi obbligatori ma stavolta lo trovo più storto di Guernica e pure più in bianco e nero.

“Cabina”

Mi dice che è uno schifo e io innocentamente gli chiedo “cosa?” ma in cuor mio credo si riferisca alla puzza e alle condizioni igeniche del posto.

No.

“Le tavolette…costano settanta euro l’una, ne ho ordinate cinque pagate in anticipo e ancora non me le consegnano, la gente è irrispettosa”

“Ma noi uomini non le usiamo…”

“Si ma le spaccate lo stesso a quanto pare…”

Piscio ed esco, mi lavo le mani. All’uscita ricomincia la tiritera del vecchio ed io che sono in vena di parlare lo incito a continuare. A lui non sembra vero ma un nuovo cliente arriva con uno scintillante cinquanta centesimi nuovo di zecca e il discorso passa in secondo piano. Io me ne vado, fra tre minuti parte il treno.

***

“Tu dove scendi?”

“Varese”

A chiedermelo è una ragazza abbondante ma molto carina. Sta con un’amica carina anche lei ed un ragazzo cieco.
Vengo a sapere che il ragazzo cieco deve scendere a Varese, mentre loro si fermano prima e quindi non possono accompagnarlo.

“Ci penso io” dico

Il ragazzo cieco mette le mani un po’ ovunque sulle ragazze fin troppo gentili, racconta storie di palpeggiamenti da parte di ciechi su persone vedenti successi a lavoro, di liti, di gite con fratello e padre, di lavoro, di musica italiana anni ’40, delle donne basse, di Ischia, di quelle alte, dell’esperienza al buio. Vuole sapere tutto di noi e noi parliamo delle nostre vite finchè ne abbiamo voglia. Ridiamo, qualche battuta, io lascio Charles cartaceo sulla borsa e mi introduco parlando di persone basse diventate famose. Un’ora dopo le ragazze scendono, ci salutiamo e dopo due fermate anch’io scendo e finisco con il pensare che conoscere sconosciuti sopra un treno è un’esperienza da rifare mille volte invece che isolarsi dal mondo.

Stazione. Strano andare in giro con un cieco. Lui ti prende a braccetto e ovviamente tu devi fargli presente che ci sono le scale, e che stai facendo una curva. Tutte le strade cambiano, uso i sottopassaggi invece di fare slalom fra le auto saltando mancorrenti. Non puoi evitare la gente con il cellulare in mano e ci andiamo a sbattere ogni quindici metri e tutti ti guardano in maniera strana e devi stare lontano dagli alberi che lui non li vede, e dai tavolini che lui non li vede e dalle promoter che lui non le vede.

“Una volta ero a braccetto con due tizi e mi hanno rubato il portafogli” mi dice

Non so cosa rispondere, vorrei solo chiedergli cosa se ne fa dell’orologio al polso se tanto “non vede l’ora” ma non faccio in tempo a trovare un sistema per fargli quella domanda senza che sembri una battuta del cazzo che lui clicca un paio di bottoni ed ecco che l’orologio scandisce l’ora con voce tecno-metallica.

Sorride.

Sorride sempre e mi sembra felice. Non lo capisco ma pure io sono un po’ felice.

Lo accompagno al pulman, lo aiuto a salire mentre srotola il bastone e appena parte vado a prendere il mio.

Dentro l’edicola appoggio sul piattino una moneta da due euro e chiedo un biglietto.

“Non sono due euro…”

“Come no?”

“No…”

Guardo la moneta. Sopra c’è l’effige di Tutankhamon, dietro, la scritta ONE POUND.

“E questa da dove cazzo è uscita?”

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Pillola del 144° giorno – UNO!

Due giorni di fila che esco da lavoro con gli occhi stanchi e un mal di testa mi rimbomba tra le orecchie nonostante oggi sia stato uno dei giorni più silenziosi della storia in ditta, calma placida, solo qualche risata sguaiata di un cliente che sembrava imitasse un macaco.

Controllo il cellulare ogni 21 secondi. Sempre in attesa di risposte a domande e in attesa di darne a mia volta e mi chiedo perchè invece di comportarmi con un nevrotico o una spia con qualcosa da nascondere, non imposti segnali silenziosi che mi avvisino dell’arrivo di qualche messaggio invece di massacrare il pulsante ON già abbondantemente in difficoltà, praticamente mezzo affondato nella scocca. Invece no, il mio cellulare è un sordomuto ormai, non parla, non ascolta, l’ho torturato e seviziato, aspetta solo la morte.

Guardo lo schermo, 3 messaggi. Leggo e rispondo ma subito me ne arrivano altri 4. A volte sembra una sfida ad ‘Uno’. Quando pensi di aver concluso e lo gridi, “UNO!” tutto fiero e soddisfatto, ecco le carte ‘+2′ e ‘+4′ come se piovesse, cambi giro e bastardate che non ti fanno vincere la partita.

Metto in tasca il telefono appena entro nel settore di strada scorticato e perennemente in “lavori in corso”. Mi sento svuotato di energia sotto il sole ancora alto che oggi si raggiungono i venti anche se nuvole lontane sull’orizzonte puzzano di sorpresa fin da qua giù e già mi immagino mentalmente l’odore di asfalto bagnato ma non questo, quello del sud, bombardato di radiazioni solari per mesi e mesi, crepato dal calore, grigio per l’usura, finchè non arriva una rinfrescata spurgatrice, che riempe l’aria di catrame olio e pioggia sporca. Mi piace quell’odore anche se lo so che fa schifo.

La mano va quasi per istinto verso la tasca. “No”

Mentalmente conto fino a “21″ resistendo all’istinto. Ci arrivo e vado avanti, “40… 41″ avanti “56…57″ vado avanti “83…”
Arrivo fino a 144, come avevo deciso fin dall’inzio e parto a scrivere il pezzo di oggi.

Parla di un tizio stanco che cammina su un asfalto sconnesso sotto il sole, fa giochetti strani con la mente, ha la testa stipata di Piani A e B sempre tra l’impossibile e il pazzoide, ha sempre in mano il cellulare, vestito da barbone con barba da fare e che odora l’asfalto d’estate. Davanti al cancello di casa tira fuori le chiavi e, nel gesto, anche il cellulare, involontariamente. Quello cade per terra. L’ennesima volta nella sua breve vita che vola senza colpe e senza scelta, assaggiando l’asfalto scrostato con vetro e plastica, girandosi trentaquattro volte su se stesso. Si china e lo guarda, cosi malconcio e malriparato, “chissà se si accende” pensa. Preme sul tasto di accensione, si accende. Toglie il blocco tastiera…nessun messaggio.

“UNO!” grida al cielo.

Pillola del 143° giorno – Asfalto zen (Tondini scoperti)

Non so perché, ma la mia strada sembra non vada mai bene. Alla fine l’hanno rifatta poco più di due mesi fa. L’avevano aperta per infilarci tubi dentro, lasciando cicatrici di asfalto scuro su quella micapoitantovecchia strada che c’era prima dei lavori, rifatta anche quella appena tre-quattro anni prima.

Lo grattano via come corteccia, l’asfalto, usando un macchinario giallo, alto e sgraziato, mettendo cartelli con scritto “attenzione tondini scoperti” e avvisi di non parcheggiare li per nessun motivo che se no la macchina te la spacchiamo.

Devo dire però, che a differenza dei fossi, dei buchi con la terra e l’acqua dentro, degli scavi sgraziati.di un mese fa, lo scenario di quelle linee e solchi orizzontali che corrono fino alla fine della strada mi ricordano tanto quei giardini giapponesi fatti con i rastrelli che portano la pace nel cuore.

Me ne vado a lavoro con un sorriso da Buddha e pensieri di amore mentre cammino nel “giardino”. Dopo dieci metri mi si infila un pezzo di asfalto nella suola.

Zen il cazzo.

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