Che ne sapete voi, con i capelli, cosa ha in testa una persona che li ha persi. Niente, appunto.

Io me lo sono chiesto come deve essere svegliarsi una mattina e rendersi conto che è finita, che non c’è più niente da combattere o preservare. Che l’unica uscita di scena dignitosa è la rasatura totale. Me lo sono chiesto come deve essere svegliarsi e accettare l’idea di non essere più quello che si è sempre stati. Rendersi conto, in realtà, che si è stati pelati da tutta la vita. È genetica: pelati si nasce, non ci si diventa. Ti svegli una mattina, magari a ventotto anni, o peggio ancora a venti (e non è che ci sia un età giusta per diventare calvi), per scoprire che non eri destinato ai capelli. Che tutti i tagli provati fino a quel momento sono stati solo una perdita di tempo. Ti rassegni, quel giorno, al fatto che non avrai più bisogno di un pettine, ma di un rasoio. Che tutta l’esperienza accumulata in anni di acconciature è andata a farsi benedire. Quasi come perdere il lavoro oltre ai capelli, praticamente cambiare mestiere.

Questi pensieri li faccio in palestra tra un esercizio e l’altro, raggiungendo un attrezzo mentre cerco con la coda dell’occhio gli stessi culi che poi fingo di non vedere. Faccio questi pensieri ogni volta che qualcuno mi dice che la mia è la classica faccia da palestra, e allora mi domando chissà come cambiano le facce da palestra con i capelli o senza. Continuo a farmeli in doccia, mentre mi godo il tepore dell’acqua sulla testa. Passo lo shampoo due volte come fa il barbiere, perché la seconda viene una schiuma che è una meraviglia ed è bello massaggiarci la cute. Asciugamano in testa – tamponare, non frizionare – e via verso lo specchio, dove tutti gli occhi convergono su di me. Ogni volta la stessa storia. Quando attacco il phone alla presa mi guardano i capelloni, mi guardano i pelati, mi guardano tutti. Qualcuno sorride, qualcuno dà di gomito, qualcuno fa una battuta.

Perché quello che la gente vede è un tizio che passa il phone su una testa completamente calva. I più mi guardano divertiti, qualcuno ogni tanto perde la pazienza di fronte a un pelato che gli ha rubato il turno allo specchio e smozzica qualche imprecazione. La verità è che non voglio rinunciare a niente. Chi l’ha detto che perdere i capelli significa perdere ogni diritto annesso? Voglio il mio tempo al phone come tutti gli altri, perché il mio tempo vale quanto il loro. Il mio spazio vale quanto il loro.

Non voglio vivere da pelato, e non mi considero pelato. Sopratutto, non voglio essere trattato da pelato. Non fate quella faccia, su, perché sé vi dicessi che non sono a mio agio con il mio sesso, stareste a dire tutti “poverino, costretto nel suo corpo”. Ecco, io non mi sento pelato, sono nato per il pettine, e chi siete voi per dire il contrario. Voglio avere il diritto di autodeterminare il mio stato tricologico. Pretendo di aver i capelli, e allora faccio come se li avessi. D’altro canto, in inglese fingere si dice “to pretend”.

Mi faccio lo shampo, mi asciugo la testa, e qualche volta mi riavvio i capelli immaginari. Se qualcuno prova ad attaccare briga io lo anticipo: “I miei capelli sono veri tanto quanto le tue palle. Vogliamo controllare se ci sono?”.

È così che me la cavo in queste situazioni, facendo il matto. Nessuno vuole avere a che fare con un matto, e quando vedi uno che si pettina la testa calva qualche dubbio ti viene. Basta essere un po’ sopra le righe e il matto è servito. Se proprio me la vedo brutta modulo la voce a cazzo. Un frase regolare seguita da un’altra isterica. Oppure simulo dei tic, della manie compulsive. Fintanto che mi credono pazzo riuscirò a pettinare la mia pelata senza buscarle.

O per lo meno questo è quello che credevo.

Prima o poi doveva capitare di incontrare uno che recitava la parte del matto meglio di me, uno che matto lo è per davvero, uno che risponde con le mani a una domanda fatta di parole.

Così mi risveglio al pronto soccorso. “Con tutti quei capelli non ne sono sicuro, ma mi sa tanto che ti sei spaccato la testa” è l’ultima cosa che ricordo dello stronzo che mi ha messo le mani addosso. Sarà che avevo smesso di fare il matto già da mezzo minuto buono ma il taglio l’avevo visto benissimo, dalla fronte fino all’orecchio. Poi sono svenuto.

Adesso c’è un’infermiera che lavora alacremente sopra di me, forse è una dottoressa. Non riesco a dedurlo dalla scollatura che si spalanca a un palmo dal mio naso tra un bottone e l’altro del camice. Giusto, ora ricordo: camice bianco significa medico. Per qualche stupido motivo mi sento lusingato da tante attenzioni da parte di un medico. È una specie di attestato sulla gravità dell’accaduto. Svegliarsi al pronto soccorso per una stupidaggine sì che sarebbe stato ridicolo.

“Dottoressa, è grave?” dico.

“No, non si preoccupi, ho quasi finito. Con un po’ di riposo passa tutto.”

“Bene”, dico alle sue tette.

“Mi tolga una curiosità, come ha fatto a ridursi in questo modo?”

“Mi stavo pettinando e sono finito dentro lo specchio.”

Sento le mani che smettono di cucire la mia testa. Poi le tette diventano un paio di occhi grandi e scuri, ero certo che l’espressione “finito dentro lo specchio” avrebbe fatto il suo effetto.

“Si stava pettinando?” chiede lei.

“Esattamente.”

Decide di ignorarmi e riprende a tirare . Sento la schiena indolenzita e le chiappe addormentate. Spero che tutto il tempo che ho passato steso sul lettino non lo abbia passato a cucire, altrimenti la mia testa dovrebbe assomigliare più a un pallone di cuoio consumato.

“Cosa le pare dottoressa, la cicatrice si vedrà molto?”

“No, non si preoccupi, ora che le ricrescono i capelli non si vedrà più niente.”