Conservare in un luogo fresco e asciutto

Mese: Ottobre 2010 Pagina 1 di 2

Il nero smagrisce. Il grigio confonde.

Parcheggio sotto un platano che ancora non è convinto che sia autunno. Sicuramente è l’invidia di quel parcheggio, l’unico ancora ben carico di foglie mentre gli altri attendono fermi e stempiati che arrivi l’inverno. Mi allontano dalla macchina, una punto tra mille punto. Unendo le punto chissà che figura ne uscirebbe, forse è uno dei passatempi di Dio…chi lo sà.

Quanta strada nei miei sandali, quanta ne avrà fatta bartali.

Oggi ho preso ferie.

Che siccome mi pareva brutto stare davanti al pc pure dopo aver preso ferie, anche se ammetto di essere stato molto tentato, ho deciso di andare a fare un giro in bici.
Saranno stati minimo 2 mesi che non inforcavo una bicicletta, e prima di quella occasione chissà quanto tempo.
Oh, che poi pare che facciamo apposta ma anche in questo racconto si parla di binari. Sarà un caso che ci li abbiamo tutti vicino casa. Che uno va in ferie per non averci a che fare coi binari e si ritrova ad averci problemi lo stesso. Che poi pensavo, i binari si chiamano binari perché sono due, ma uno senza l’altro non può essere un binario. In due sono binari, in uno non sono nulla, al massimo una lunga rotaia di ferro. Non vi pare?

“Ottochilometri”

Sono le 19:06 ed esco a correre. L’orario è volutamente preciso.
Preciso è il percorso, preciso è il ritmo, la playlist scorre uguale da anni, a volte abbandonata ma che ritorna sempre puntuale anzi, precisa. Sapete…il quotidiano di solito è tragico. Il ripetersi continuo e monotono di situazioni viste mille volte, ma vissute milioni di cui non ti ricorderai nulla. Non te ne ricorderai te, figurati gli altri. Ma questo “quotidiano” mi piace, comincio con una procedura ritmica e precisa di stretching, mi allaccio i pantaloni oramai troppo larghi, e sistemo le scarpe, unico particolare che si è arreso al tempo. Sono gesti automatici, quasi scaramantici, se ne sbaglio uno magari mi faccio male alla caviglia e Dio solo sa quanto ne sarei dispiaciuto. Non sarebbe carino anzi, non sarebbe preciso.

Uno di quei giorni

Oggi è uno di quei giorni in cui smetto di sentirmi un pugile che si rialza ad ogni colpo e sono solamente il punchingball inerme di qualcun altro.
Oggi è uno di quei giorni in cui mi circondo di persone perché attorno mi sembra tutto così vuoto.
È uno di quei giorni in cui non smetto di guardare la montatura sfocata sul naso, e fintanto che mi fisso sulla prima cosa che vedo non riuscirò mai ad andare oltre.

Nudo

Letizia insidiata dal tormento,
inferno mischiato a paradiso
quella notte un alito di vento
è sceso sul tuo pallido sorriso.

Un pensiero nato di nascosto
figlio di un rimpianto e una risata,
t’ha cercata senza che l’avessi chiesto
e da allora non ti ha più lasciata.

Moon (?)

“Cosi vicina…”

Andrew saltò, balzando sul terreno soffice del satellite. Era un bambino. Indossava dei pantaloncini rossi, una maglietta blu e delle Adidads nere completamente sfondate, vittime sacrificali di estenuanti partite a basket.

“Mare Smythii…Dorsum Cloos…e di là c’è il Babcok!”

Sapeva tutto della luna, collezionava mappe, modellini, foto. Aveva raccolto materiale dai 5 fino ai 13, attuali ed illusori anni. Stava sognando, sapeva benissimo che sulla luna non c’era aria per respirare, che faceva troppo freddo e lui non indossava una tuta spaziale. Era un sogno ma ad Andrew non importava, il realismo era grandissimo. Riconosceva i crateri, la consistenza del terreno, lo slancio inusuale della gravità ridotta…La luna, la sua vera casa; è una cosa che si sente. Quando sei nel tuo paese e la gente ti saluta, sai dare indicazioni ai passanti e conosci gli angoli sconosciuti ai forestieri, sei parte di quel posto e lo senti. Per Andrew quel posto era la luna.

C’era una volta a New York

Il giorno che ti svegli con le ossa rotte e i denti spaccati la prima cosa che ti domandi è quale degli stronzi che ti hanno ridotto in quel modo ucciderai per primo. La seconda è in che modo.

Mi chiamo Jimi Lion, negli ultimi quattro anni della mia vita sono andato a letto col sole e mi sono svegliato al tramonto. Quando le luci si abbassano e la città si addormenta le strade si riempiono di topi. Spacciatori, puttanieri, borseggiatori e stupratori. All’ombra della luna diventa pericoloso comprarsi anche un cazzo di hotdog. L’ultimo mi è costato un dito, un distintivo, e un cadavere a saldo. Con quel maledetto hotdog ho smesso di essere un poliziotto e ho cominciato ad essere un assassino. Se ci ripenso ricordo ancora adesso il sapore della senape mentre spingevo il tacco della scarpa dentro il cranio di quel farabutto. Voleva il portafogli. In un altro giorno lo avrei anche accontentato. Ma non in quello. L’unica cosa che ottenne fu il mio mignolo sinistro e un cartellino attaccato all’alluce. Mentre esalava l’ultimo respiro raccoglievo due tovaglioli dal carretto e mi ripulivo la bocca.

Mai così bello

Passeggiavo lungo le vetrine affacciate sul corso quando ti ho vista uscire da un negozio e fermarti subito fuori dalla porta. Sorridevi e la luce del pomeriggio ti accendeva gli occhi, o forse erano i tuoi occhi ad accendere la luce del pomeriggio.
Quando i nostri sguardi si sono incrociati è stato come vivere una vita intera in un istante. Quando hai posato gli occhi su di me ho capito che eri la donna che stavo aspettando.
Io ti ho detto ciao e tu hai risposto ciao. Non ricordo di avere mai avuto una conversazione più bella.

La sconfitta è un’illusione

La vecchia stazione, gialla a righe rosse era abbandonata da tempo. Le porte con vetri in frantumi e vernice scrostata, graffiti all’interno e vecchi distributori di merendine completamente sfondati.
I binari arrugginiti aspettavano treni che non sarebbero più passati e delle tre panchine sulla banchina passeggeri solo una conservava una qualche utilità.

Su questa panchina sedeva un vecchio.

Una porta di ordinaria follia

Sono circa le 11:50 nel paese senza nome. Tra enormi casermoni di cemento grigio, in una casa singola di un pallido rosa corallo, una pentola sta riducendo in cenere il suo gustoso contenuto. La casa è piccola ma arredata con gusto, due piani ma quello sopra è piccolo. C’è il parquet per terra ma non è di quelli di lusso anzi, ha l’aria vagamente di plastica. Soprammobili kitch, centrini, fotografie incorniciate da placcature argentate, tipico armamentario della famiglia media, in questo caso della famiglia di Michele Parati, sfortunato protagonista di questo primo sogno lucido.
Un uomo, catapultato nel peggiore degli incubi. Una famiglia invitata a pranzo, il cibo che si cuoce gorgogliando in una pentola e sei persone chiuse fuori di casa per una dannata chiave dimenticata all’interno.

Carestia di binari

Nella mia città c’è carestia di binari.

Non è che se li rubano per farci i cannoni come nella seconda guerra mondiale, e nemmeno ci sono troppi treni su poche rotaie, niente di tutto questo. Semplicemente succede che quando arriva un treno con troppo ritardo, a volte viene fatto partire dallo stesso binario di un altro ed oggi è una di quelle occasioni. Il mio treno parte dal binario 4, direzione Porto Ceresio ma quando spunto dalla scalinata sotterranea mi ritrovo davanti due treni, uno per Milano e il mio. Ci penso un istante e senza nessuna esitazione salgo su quello giusto, mi siedo e aspetto.

Uccidete il sassolino nella scarpa

Ora vi svelerò un piccolo segreto di cui in pochi siamo a conoscenza.

I sassolini nella scarpa non sono sassi. Vi hanno preso in giro sin dalla prima vostra camminata. Sono esseri viventi, di quelli intelligenti per giunta e non dico, badate bene, intelligenti come può essere un delfino, una scimmia o un narvalo oceanico no, fottutissimamente intelligenti, quanto gli esseri umani. Forse quanto me.

Il nastro adesivo

E ti svegli un giorno nel quale ti accorgi che non hai capito niente. Che la vita non è logica e non ha logica, e che le persone sono solo una matassa di cui non esiste bandolo. Siamo dei boomerang fuori controllo. Ti accorgi un giorno che hai vissuto secondo uno schema impreciso disegnato su un modello sbagliato. Che la tua immagine riflessa sul vetro è più nitida di quella del mondo che sta oltre e che non riesci a metterle mai a fuoco tutto e due insieme. Come se non fossero parte della stessa esistenza, come due vite appiccicate a forza una sull’altra ma che non possono aderire.

Che le parole, le relazioni, le speranze, le illusioni, i progetti, i pianti, le gioie, le paure, le certezze, non siano servite ad altro che a tenerti impegnato e a distoglierti da una verità che è meglio ti sia negata e che persino tu ti sei negato. Una verità che hai sospettato più volte e che hai ricacciato indietro con la scusa di vivere.

E ti riaddormenti quel giorno con l’amara consapevolezza che, nonostante tutto, continuerai a rigirare all’infinito quel rotolo di nastro adesivo tentando inutilmente di grattarne il capo con l’unghia. E che forse a te, va bene così.

Out of Memory

Esco a trovare un po’ di amici. 5 euro dentro il portafogli e la carta bancomat. Apro il portone e la strada è bagnata, la luce dei lampioni rivela una pioggia finissima ma insistente. Salgo in macchina, direzione banca. La solita dove vado a fare bancomat anche se non è la filiale dove mi servo. Secondo me là dentro hanno la mia foto con su scritto “WANTED”. Saranno 5 anni che faccio regolarmente bancomat lì e non ho mai visto la faccia di un impiegato. Ci sono andato anche la settimana scorsa, quando ho ritirato 50 euro senza problemi. Infilo la tessera, guardo il tastierino e solo una frase nella testa: “e adesso quale cazzo è il codice?”

La magica strettoia

Strana la vita. Mi ritrovo ad aspettare quando di solito corro. Ho 3 vecchietti davanti a me all’uscita da un cinema, camminiamo lungo una strettoia di qualche metro ma stranamente, rimango dietro, tengo il loro passo e non li supero imprecando come farei di solito. La cosa mi stupisce, è forse un segno?

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