Conservare in un luogo fresco e asciutto

Mese: Dicembre 2012

Lettera a te…

Sono anni che non ti scrivo più e chissà se leggerai questa lettera…

Sono confuso. Confuso al punto che decido di mettermi a letto, così magari i pensieri se ne vanno da altre parti, si girano. Hai presente quando rimaneva una sola moneta nel salvadanaio che non ne voleva sapere di uscire da quel buco e tu ruotavi, scuotevi, infilavi dita e quella moneta scivolava con uno stridio che sapeva di presa un giro? Ecco, mi sdraio così magari esce tutto dall’orecchio, con il cuscino che assorbe. Ma rimangono lì e mi prendono in giro. Pensieri che non riesco a decifrare; mi sembrano solo un mucchio di persone che parlano fra di loro in una stanza fumosa. Pressano, angosciano e parlano parlano parlano, alcuni di tempo, altri di donne, altri sono solo lacrime, altri ancora mi fanno notare tutta la mia sequela di difetti.
Tra tutti questi pensieri non c’è un’idea per il futuro, né uno che mi suggerisca come sistemarmi, come crescere, che mi faccia capire cosa mi piace, chi mi piace, se parlarle, se è paura o disinteresse. Non so non so non so.

Ora…calma.

Vivo confinato in un universo che a ben vedere si riduce alla mia scatola cranica.

In questo momento di assoluto far nulla a lavoro, propizio direi, me la misuro più o meno con un metro facilitato dalla più o meno assenza di capelli e il risultato è un più o meno 24 x 24 x 17 che se lo moltiplico esce 10368, un numero come tanti anzi, come infiniti.

A pensarci bene l’infinito è un concetto strano che se voglio star male masochisticamente, comincio a immaginare di andare oltre un confine e ipotizzarne l’aspetto, la sensazione di un qualcosa che non finisce. Non ce la faccio, arrivo sempre in un punto in cui il bianco finisce e inizia il nero, un ulteriore sforzo e quel bianco si riversa nel nero come latte nella cioccolata fondente, un’onda, uno scalciante cavallo pazzo liquido ma prima o poi arrivo sempre ad un limite oltre cui il pensiero non riesce proprio ad andare.

A che serve l’infinito…a nulla credo, quindi forse è anche logico pensare che da qualche parte ci sia una staccionata, un cartello “torna indietro”, un segnale che ti indichi “strada interrotta”.

Ma se ci arrivassi e vedessi oltre, cosa vedrei?

Se non posso immaginare l’infinito è ancora peggio pensare al nulla e magari alla fine risulta che infinito e nulla sono equivalenti.

Se mi immagino il nulla lo vedo bianco. Quindi penso all’infinito che è finito come nero. A questo punto, dove finisce il finito infinito nero inizia l’infinito bianco nulla, a meno che anche il nulla non finisca e ci sia solo una cosa trasparente o di un colore che non esiste dove anche te se ci entri non esisti. Una specie di “più nulla”.

Ragioniamo per spazi chiusi ecco la verità; cubi tridimensionali, sfere mentre invece, forse, l’universo è una figura geometrica nuova, una specie di riccio senza lati esterni ma infinite linee che si propagano in direzioni diverse, in cui l’interno in realtà è l’esterno, un universo-riccio con dentro un mare bianco con almeno 10368 linee nere, che partono dritte e dopo 10368 miliardi di chilometri cominciano a rilassarsi, curve e sinuose da seguire per sempre, infinite per davvero.

Non dovrei lamentarmi delle cose che non cambiano se i momenti di riflessione li spreco cosi.

Resa del conto

Me la ritrovo di fronte nel bar del paese in uno di quei giorni di festa incerti, quelli che da piccolo chiedevi ai tuoi se si doveva andare in chiesa oppure no, di quei giorni che capitano di venerdì o sabato.

Lei è in tiro per l’occasione, come se la celebrazione nel tempio implicasse sacrifici di fighe ben vestite o una processione di prostitute, in altri casi. Io ero vestito da perfetto zotico mentre mi sedevo di fronte a lei. Capelli non pettinati, figurarsi lavati, camicia aperta su una maglietta dei Motorhead appartenuta ad un  mio cugino metallaro, che il diavolo se lo porti. Pantaloni da lavoro in jeans, che con l’usura e lo sporco sembravano un capo d’alta moda. Non mi formalizzo con lei.

Si alza dal tavolino, mettendomi il braccio intorno al collo, stampandomi un bacio di puro affetto sulla guancia.

“Mi crede suo fratello” penso mentre guardo quel seno perfetto che si intravede dietro la sua camicia azzurra e sento già l’eccitazione galoppare feroce. Si siede, con quel sorriso da panico che conosco da quando avevamo entrambi sei anni. Comincia a parlare ma io osservo solo i suoi lineamenti perfetti, il modo in cui muove le mani e come le unisce allungando le braccia sul tavolino, sporgendosi in avanti, quando vuole che sia tu a parlare. Come adesso.

Forse ti ha chiesto perché vedersi prima della cerimonia al bar. Non sa del tuo rapporto con i giorni festivi.

Forse ti sta chiedendo consigli sul suo ragazzo che conosci, di cui sei quasi amico, con cui hai anche lavorato assieme, anche se sono notti che lo sogni morto per incidente oppure in preda alla follia al punto di mollare tutto e scappare o ancora, invaghito di una statuaria russa, tradire ed essere beccato.

“Voglio fare l’amore con te” le dico.

“Scandisco bene amore perché non ti voglio scopare come un selvaggio, non solo quello. C’è del sentimento, profondo, ossessivo, torbido, malato. Con le altre sarebbe scopare, con te è fare l’amore capisci? Lo farei quasi piangendo, forse ti farei male, perché sei l’unica in cui posso riversare rabbia, frustrazione, energia e desiderio. Puro istinto…”

Tutto il resto lo penso soltanto. Nella mente lo urlo convinto in un secondo mentre la osservo che torna indietro con le mani, il sorriso che sparisce. Sento un gorgoglio nella gola e se provassi a parlare balbetterei senza dignità quindi sto zitto. Nei miei sogni, quelli belli, in cui il suo uomo l’ha abbandonata e io la conforto, di quelli che ti svegli con le mani tra le palle in pieno relax, a questo punto io e lei usciamo e andiamo da me; apro la porta e la sbatto sulla libreria, con una mano le tengo il collo, con l’altra tolgo tutto quello che c’è da togliere. Un bacio, un morso ai lobi delle orecchie. Amore come deve essere, finalmente.

Invece la vedo mettere via il cellulare nella borsa, agitata. Sembra che pianga ma non ne sono sicuro. Non mi degna di uno sguardo mentre si alza e il resto del bar si gode la scena. Stasera tutto questo paese saprà, è sicuro. Con il suo corpo compatto si allontana senza nemmeno una parola, in fretta. Sento la porta che si chiude alle mie spalle.

Io dentro non ho più nulla, sconvolto ma senza darlo a vedere. Sconvolto che non riesco ad immaginare la mia espressione attuale, non ricordo nemmeno che faccia ho. Finisco il mio caffè e vado verso la porta a vetri, lei non la vedo. Esco senza pagare.

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