Conservare in un luogo fresco e asciutto

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Pillola del 232° giorno – Quando il bagnoschiuma mi sembra un grattacielo

Oggi mi sono svegliato e desideravo una lavagna, desiderio che mi porto dietro nella presunta realtà dall’unico frammento di sogno che mi ricordo di questa notte tormentata. Ci sono io, dentro il letto, che guardo me stesso in piedi con i vestiti da malato addosso mentre scrivo qualcosa su di una lastra appesa lì sul muro, bordo di legno e ardesia bella nera, e so per certo che quei segni sono una trama, ci sono i nomi e i pezzi di storia che non ho mai scritto tutti collegati da frecce bianco-gessetto e appunti e capisco che ho ragione quando ‘sento’ che mi serve un calendario con su scritte le cose da fare, appiccicato sul portone di casa in modo da vederlo ogni volta che esco per una nuova giornata…ed ho ragione quando penso che per certe cose…importanti – IN scadenza – INconcluse – che sento INfinite – per la mia IMpotenza ”cause I’M not just a man with these broken dreams” cantavano gli Hollywood Undead…dovrei rivestire ogni giacca di post-it gialli, arancioni, verdi, rossi, cobalto e cadmio e cosi via, un colore per ogni dannato giorno della settimana.

In mente, adesso, ho tutto il catalogo delle lavagnette più o meno utili che mi sono passate per le mani e pure quelle più o meno magiche…un quadrato di plastica bianca forato, due-trecento fori, ci si infilava questi funghetti di colore diversi per creare scritte e disegni…e quella con lo sfondo tipo carta carbone poi, aveva una penna di plastica agganciata con una cordicella e levetta che cancellava all’istante i capolavori che ci pasticciavo, orrendi segni grigio chiaro su grigio scuro…e la mia preferita, il classico mezzo sogno proibito da bimbo…sarà che stava appesa in alto nella cucina di mia zia…metallo pitturato di bianco, bordo rosso e ripiano con cancellino e indelebile nero che già da piccolo sapevo che da sniffare era gran roba e da usare per pasticciare oggetti bianchi ancor di più.

Ho un piano, ora, ma il computer personale sopra-scrivania ormai ci mette dai venti ai trenta minuti per diventare operativo, sembra sempre in dopo-sbronza ed è inutile starsene li seduto, che il freddo è come l’acqua e le radici delle piante, trova anfratti e interstizi e si infila nella finestra, poi nel cassone della tapparella, scende lungo il vetro gelido e si tuffa nel colletto della mia felpa, canottiera, pori della pelle IMpercettibilmente aperti, carne, sangue e crepe nelle ossa e allora sto in giro piuttosto, vestito di grigio con cappuccio e blu con striscia laterale viola che fa tanto profugo, ne approfitto per fare da infermiere a Madre, che la mia eredità del weekend è una bella dose di virus e germi e febbre e in qualche modo devo sdebitarmi, chiedo cosa serve e “Si! Preparo il Thé…” anche se poi la sto a chiamare mille volte che chissà dove si trovano limone, vassoio, tazza, bustine da infusione e quella medicina del cazzo di cui non ricordo mai il nome ma comunque preparo, accudisco, rimbocco coperte amorevolmente, cronometro minuti per i test di dilatazione del mercurio, lavo piatti e do una parvenza di sistemata anche se per un occhio esperto son sicuro che possa equivalere a buttare lo sporco sotto il tappeto ma accontentatevi, che alla fine “…I’M just a man…my will is so strong…when I’ve got plans…i close my eyes to the pain…” cantavano gli INXS.

Bacio della buonamattinata a Madre che tenta di dormire…un’ora è passata e ritorno ai miei piani rifugiandomi nel mondo virtuale alla ricerca di una lavagnetta, ufficialmente diventata la chiave del successo futuro della mia vita anche se SICURO che si riducerà all’ennesima porcata comprata per sprecare carta-banconota, accatastata in uno tra le centinaia di cassetti stipati delle cose non-utili della mia esistenza. Ora, di fronte lo schermo e a destra la finestra con il mio più recente animale domestico, una cazzo di mosca gigante intrappolata tra vetro e zanzariera…non so come sia entrata ma non ho intenzione di renderle facile la vita che tentare di farla scappare comporterebbe aprire la finestra e lasciare campo al gelo, staccare un lembo di rete e indirizzare in qualche modo la bestia nella breccia ma queste cose funzionano solo con i Persiani mentre in questo caso la legge di Murphy farebbe di tutto affinché la mosca si opponga, vada da altre parti o tenti di entrarmi in bocca e quindi che se ne stia in gabbia, per adesso temporeggio e cerco di non distrarmi ogni volta che uno strano puntino nero sfocato entra in conflitto con la mia visione periferica.

Vedo che onlINe c’è pure una mia amica…l’ho conosciuta dopo aver scoperto il nome con interrogatori e minacce a persone e cose causa un mezzo colpo di fulmine per la sorella sua…che dopo un anno ancora non sono riuscito a conoscere. Le chiedo se per caso è stata a Dubai anche se so benissimo che è stata a Dubai ma il giochetto della domanda del cazzo ti evita sempre tutto il discorso introduttivo in stile “Ho visto che sei stata a Dubai, raccontami un po’…” che è troppo lungo e formale quindi meglio ‘domande ovvie del cazzo’ e via. Lei ovviamente dice di si, e io chiedo un po’…se il Kalifa da quasi un chilometro l’ha visto e lei mi manda un po’ di foto di Dubai e mi racconta di Dubai e io mi ritrovo che voglio andarci a Dubai e come per magia, la storia della lavagnetta quasi non la ricordo più e quando mi infilo in doccia, per togliermi l’odore di chiuso e malattia per la sesta volta in due giorni, comincio a pensare ai viaggi da fare e sogni, infranti e non e a Dubai e manco fossi pieno di LSD fino al midollo, tutto si trasforma e la ceramica della vasca diventa sabbia e tutti i flaconi si trasformano in hotel e torri dal chilometro facile e finestre luci, acqua, isole artificiali e fontane, uomini ricchi e poveri, io in giro che faccio foto, strisce luminose dei fari rossi ed esposizione lunga, acquari dentro hotel, ristoranti e squali, limousine, povertà e ricchezza, cibi strani, lingue straniere, check-in, gate closed, valige, scoprire bar, specialità della casa, vestiti strani e turbanti, l’acqua diversamente salata, fusi orari, persone nuove, storie, sogni di qualcun’altro…che alla fine è cosi che son fatto, ad innescarmi l’immaginazione ci si mette pure troppo poco, due righe, due foto, due ipotesi e mi accendo…ci sto sempre un po’ stretto nella mia vita, la scappatoia per cambiare le carte in tavola la cerco sempre…e contateci che sarà la mia rovina…e la madre di tutte le mie insoddisfazioni…e di tutte le depressioni ma che ci posso fare…d’altronde “I’M just a man…and every night I shut my eyes…so I don’t have to see the light” cantavano i Faith No More.

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Pillola del 226° giorno – Sessanta minuti

Fra un’ora il freddo, acqua sulla faccia, specchio, istanti a fissarmi, difetti, dialoghi solitari, aria calda ed occhi chiusi, vestiti gelidi, quattro mandate e l’aria dell’inverno, il borsellino nella tasca, chiavi a destra, la giacca che sembra gonfia, aria-spanna-vetro-quasi-bianco, primi metri a passo di lumaca, Lupo di tredici anni che non ama gli strappi a freddo, playlist diciassette tracce, equalizzatore “nessuno” poi repeat all, livellamento audio ON, cavo attorcigliato, volume livello ventuno, cellulare incastrato tra schienale e seduta, curve del Lupo ad alti G, cambi di marcia, rotonda…scala, rallenta, quarta traccia playlist, rewind, rallenta…metti la freccia, attendi il verde, piedi occupati, ora accelera, dai un’occhiata dietro, dopo il passaggio a livello a destra, piano…il muro è vicino, una piazza morta con mille cadaveri di acciaio, treni e rotaie, luci di semafori, luce rossa sulla portiera, asfalto, rumore di auto, strada umida di ghiaccio, sottopasso e graffiti, barboni, cibo per terra, neon rotti e gialli, piastrelle verdi e bianche, alberi secchi dentro cerchi di metallo, pietre rosse per terra, sguardi, sguardi severi, sguardi curiosi, porta di vetro, struttura in ferro nero, gradino di pietra, afa improvvisa, bancone, fretta, bicchieri…sbadiglio, testa pulsante, stanchezza, un drink, maledire l’insonnia, resto di quattro euro e cinquanta centesimi, due da uno, una da due, niente scontrino, “Vodka Lemon”, vetro ghiacciato come nel Lupo, playlist disco-dub-step dispersa tra le voci, gente come il traffico, in fila, attorno a rotonde di polimetilmetacrilato trasparente, in scatola, ansia collettiva, esistenze intrecciate, amori, tradimenti, playlist masterizzate su cd estivi, cuori disegnati con indelebili…lo odori e poi chiudi il tappo, lavori inutili mascherati da ambizioni e miserie, dubbi, malattie, malinconia, aspettative, “che cosa mi metto?” “mi ama?” “non so se dirglielo” “voglio un figlio” “cosa ci faccio qui..” che rimbalzano in quei crani, un sacco di confusione, che genera rumore, rumore, rumore, rumore, rumore.

Ma prima, almeno per un’ora…silenzio.

Pillola del 207° giorno – Nuovo documento.docx

Decido da prima di scrivere un bel pezzo. Ci penso la mattina quando esco nel freddo e anche davanti allo schermo in 8 ore di meritato quasi-far nulla.

Non riesco a scrivere niente, nemmeno il titolo, nemmeno il numero del giorno, duecentosettesimo che qualche augurio per aver superato il duecento mi è pure arrivato per quanto serva al mio attuale morale ovvero, nulla…non fa quasi differenza.

Eppure di solito la cosa funziona…ma è evidente che anch’io sia soggetto ai periodi e ai fogli bianchi di word che salvi come ‘Nuovo documento.docx’ che nemmeno un nome per il file ti viene in mente…quando sono giorni che non fai altro che dirti di alzare l’asticella, che ogni pezzo dev’essere di qualità anche se lo scrivi alle tre di notte con il sonno e il primo degl’incubi notturni che già bussa da dietro le palpebre. Mi credevo un genio. Mi sveglio che sento di esserlo, la sera mi ritrovo nel cesso della mediocrità. Devo arrendermi al fatto che in molti giorni i pensieri attraversano la gelatina e arrivano deboli e molli e c’è da arrampicarsi sugli specchi. Quando rileggo il mio creato ben impaginato su libro digitale butterei via metà delle parole. Gli altri scrivono immensamente meglio, gli altri hanno le storie e mondi, vanno a parare da qualche parte. Io parlo di fogli bianchi e di qualche macchia di sporco che ci butto sopra quando scrivo seduto sulla tazza del bagno.

“Io mi levo dal cazzo…”
“Mi sa che vengo pure io” rispondo a Teo.

Ci vado. Costeggio il muro della ditta per andare sul retro, sorpasso il Caterpillar giallo parcheggiato come un’utilitaria e mi infilo in macchina…meno strada da fare con le scarpe umide e il vento contro, meno freddo sullo stomaco, meno stress articolare e consumo di asfalto e suole, strofinamento di pieghe di stoffa per andamento cinetico degli arti.

Voglio tornare a casa prima.

Cado sul letto, blu scuro fuori, tic-tac dei tasti del cellulare, traccia melodica-elettronica indefinibile nei padiglioni acustici…chiedo ad una rossa riccia per la terza o quarta volta, non ricordo, di uscire…è una fissa, una cosa che voglio ma stavolta non mi risponde e non mi risponderà…quindi mi metto al pc e riprendo a trasformare i ricordi in 4:3 di Berlino con fare stanco mentre sticomitie iperveloci di Gilmore Girls si intromettono a frequenze ultrasoniche oltrepassando la barriera del fastidio. Odio quella serie, i dialoghi in cui tutti sembrano dannatamente brillanti e simpatici rispecchiando un mondo teatrale e falso. Odio la cuoca cicciona e la sua farlocca stizza e modi di fare da procione con ghianda in mano. Odio la ragazza giovane e la sua madre vacca più vecchia. Odio la madre-nonna e i suoi vestiti-armatura di seta e la casa…con mobili antichi pitturati crema e tessuto alle pareti. Sopporto il locandiere perché sembra Stallone, il nonno da quando ha i baffi, il pazzo squilibrato che somiglia ad Edward Norton ma con l’insegnante di sostegno…ho sempre tifato per gli sfigati e gli scorbutici, i brutti. Io sono brutto, sfigato e scorbutico e ho sempre desiderato qualcuno che facesse il tifo per me.

Non riesco a vederne più di otto minuti con l’audio attivo ma pare faccia bene al recupero di salute di Sorella, messa a letto da influenza e mal di pancia e curata a pasta bianca, Busco Pan pastiglie, tachipirine da sciogliere, Oki e Tv…Masterchef Usa, Italia, Uk, Algeria e tutto il resto dei paesi e Gilmore Girls appunto. Purtroppo.

Visto che sono già in postazione chiedo a qualcuno che ne sa…Wikipedia, e vado a leggere il finale. La giovane delle ‘girls’ finisce con il biondino e va a fare la giornalista mentre la madre se ne gira trecento o cento volte i soliti tre e dimostra che un po’ troia lo era davvero alla fine.

Mai avuto dubbi.

 

Pillola del 205° giorno – L’importanza di sapersi togliere un maglione in pubblico

C’è una voce al telefono…dice qualcosa del tipo “disattivare il servizio di disabilitazione per poter effettuare la chiamata” senza aggiungere nulla, non un sito o un numero da chiamare che comunque non potrei contattare non avendo disattivato il servizio di disabilitazione.

Forse devo urlare qualcosa verso il cielo, forse è uno scherzo, forse devo implorare l’aiuto di Super Telecom con mantello rosso, forse non so cosa sto facendo, forse posso convincere i miei che il telefono non serve e che piccioni e fumo e pony express sono meglio ma sotto sotto, prego Dio che la regola inglese della doppia negazione venga applicata anche al resto della vita e che ‘disattivare’ e ‘disabilitare’ si annullino…magari già da domani si, appena sveglio.

Ne sono convinto, dico a Madre che risolverò tutto domani, che ho un piano il che è quasi una cosa vera e che consiste nello schiantarmi sul letto, dormire e sperare che una qualche sorta di magia operi nei cavi o un folletto operoso che lavora di notte si accorga di anomalie e che sistemi tutto smanettando su tastiere a velocità Jessica Fletcher su macchina da scrivere…ricordate no? Nella sigla della Signora in Giallo dico…all’inizio credo, con la canzoncina che faceva “Dan-Dan-Dan-Dan-Dan…Dan-Dan-Dan…Dan-Daaa..” che poi, quando penso alla Jessica, più che la sfiga che si porta dietro…a volte mi pare di vedere uno scheletro con la falce dietro di lei…mi vengono in mente le vecchie con i capelli cotonati. Da dietro sembrano tutte uguali e tutte sistemate dallo stesso parrucchiere che a sto punto dev’essere milionario visto che le fa in serie peggio degli scaffali IKEA. Hanno questi boccoli e forme cespugliose con colori da mezzo piccione sporco che io mi dico che sarebbero meglio come quelli di mia nonna a sto punto, bianchissimi e pure mezzi-punk. Quello si che era stile.
Ora, io dal giro del parrucchiere mi sono tolto da un po’ e la cosa che mi stupisce, e qua le cose si incastrano in maniera meravigliosa, è che l’altro giorno mio padre mi fa…

“Figlio…orsù prendimi un appuntamento per metà ora dopo la terza di meriggio dal tosatore di chiome”

…e io subito, sul telefono di casa, ancora lontano dal dramma della disattivazione di disabilitazione, con memoria e velocità digito il numero “20-22-64” che forse è l’unico numero fisso che sono riuscito a ricordarmi ed ecco il vecchio parrucchiere dell’ormai infanzia, Massimo, lì che mi parla al telefono e mi chiede cosa faccio, cosa combino e no…non ce l’ho la ragazza..eh in paese non ci sono quasi mai…si la fotografia qualche soddisfazione la tira fuori finalmente.

Lo saluto che alla fin fine lo conosco da vent’anni abbondanti e fa sempre piacere, mi passo una mano sulla testa rasata in memoria dei giorni dei capelli sugli occhi o del gonfiore post-phon o del che bello era tirarseli indietro. Ormai essere pelato non è più un problema, ormai non mi importa ed è incredibile invece, quanti altri mille altri problemi del cazzo mi sono creato per sostituire l’ansia del pelato con mille altre micro ansie da minorato mentale che mi rendono insicuro come un tavolo a due gambe.
Tipo, ieri ero in un locale gonfio di gente e ragazze e drink e simpatia e ipocrisia e vedo un mio amico che si toglie con disinvoltura un maglione.
Ma tu sai quanto volte penso ai vari passaggi quando mi devo togliere un maglione…assicurarmi che la maglietta sia dentro i pantaloni che altrimenti tiri su tutto, mi incastro e mi innervosisco e sudo e porto via tutti quegli elementi di cui mi arredo il corpo tipo catenine-bracciali-orologi e magari hai sotto la camicia e sembro un babbeo del cazzo con una specie di tenda incastrata sul cranio se me lo tiro via e…

…continua cosi a ritmo continuo mentre soffro il caldo e subisco il disagio e il maglione rimane appiccicato sul busto per il resto della serata…e dire che non mi posso neppure spettinare i capelli.

Il mio amico invece…che è pure uno che con gente uomini e donne ci sa fare mica ci pensa, mentre io si…che cazzata.

Cioè, perché stare a pensare due ore come fare quando fare e perché fare certe cose? Se hai problemi a toglierti un maglione in pubblico tanto vale che stai a casa a piangere in un angolo dico,figurati che succede con le cose serie.

A meno che non sia quello il trucco di chi ci sa fare davvero…togliersi il maglione in pubblico è la prova definitiva…non il modo di fare o le parole o i sorrisi, passa tutto dal maglione da sfilare che diventa una specie di interruttore di superpersonalità stile cappellino di Sylvester Stallone in ‘Over the Top’…diceva che quando si girava il cappellino gli si accendeva una specie di interruttore e diventava una macchina da braccio di ferro.

Vabbhè basta.

Che pensieri del cazzo.

Mi spoglio e vado a letto.

Pillola del 188° giorno – Che tanto fra 5 miliardi di anni è tutto finito

Seduto, tavolaccio di legno di un pub, tre luppoli dentro una bottiglia di Bock marrone mentre si discute di donne e moto, giusto qualche giorno fa…
 
Si presenta questo tizio che non conosco…do la mano, lui la stritola e la cosa non mi piace, come se ti prestassi la macchina e me la riconsegni schiacciata sul muso, senza portiere e con un barbone morto sul cofano.

“Grazie…”

“Si prego…però…cazzo…la macchina…”

“Ah si…però grazie eh…”

Ora…vorrei dimostrargli che il parkour serve a qualcosa reagendo con una contromossa che gli demolisca i metacarpi ma si sa come finiscono queste cose poi…una tira l’altra, ripicche su ripicche e finisce che la prossima volta porta un amico pugile da presentarti ed invece di darti una pacca sulle spalle ti gonfia di botte in un angolo.
 
Sapete cosa dimostra tutto questo schiacciare le cartilagini altrui? Dimostra il tipico atteggiamento di ‘cercare di far vedere qualcosa’…che io son forte che ti stringo la mano durissimo…te la presso bastardo, te la spacco quella mano hai capito?
 
Fai come ti pare ecco…mica mi interessa…mi dà solo un po’ di fastidio anche perché poi ci penso ed un sacco di volte nella catena dell’apparenza ci finisco pure io e mi do fastidio da solo.
 
Oggi ad esempio, vado a messa…non per quale strano motivo eh…è che i miei credono che frequenti spesso ma in realtà no ma oggi non avevo alternative divertenti e stare a casa nascosto in un armadio non mi garbava, troppo scomodo e ho il torcicollo. Quindi decido di andarci davvero per una volta, sedermi in fondo ad osservare come il cameramen in un documentario sulle bestie della savana…capire in cosa credono quegli altri lì che in fondo, se ci penso, credere sul serio sarebbe bello e comodo anche per me.
 
Nel trucco dell’apparire ci cado appena entrato, subito a puntare la figa nel coro mentre maledico la mia barba incolta, i capelli non rasati e i vestiti da barbone tossico. Arriva il momento delle offerte e io tiro fuori il portafoglio ma dentro ho solo trenta centesimi e i rimasugli di una SIM. Le vecchie attorno intanto sventolano buste e bigliettoni, sembrano brooker all’apertura di Wall Street, mentre io non so che fare con la mia evidente indigenza.
 
Mi creo un piano subdolo con cui possa cavarmela senza passare in quei terribili secondi in cui sei l’unico che non butta dentro monete e guardi in basso fingendoti distratto o peggio…addormentato.
 
Il trucco che escogito sta nell’infilare la mano dentro il buco sulla stoffa che copre il cestino e ‘lanciare’ le monete nell’angolo più buio. Faranno casino rimbalzando sul resto di quella riserva di Nickel. Sembrerà che abbia gettato una manciata d’oro e l’omino delle offerte non vedrà nulla…che quello lì se lo osservi bene sta sempre a guardare in basso, verso la fossa dei soldi, scannerizzandoti il bilancio bancario con due occhiate.
Eccolo che arriva appunto, completo grigio, leggera protuberanza addominale, camicia azzurrina, occhiali e occhi che osservano. Tutti buttano dentro qualcosa…ed ogni volta mi sembra di notare nell’omino un leggero “Si Si” di approvazione severa fatto con la testa. Quando me lo trovo di fianco uso la mossa dello scorpione…così l’ho chiamata…e lancio le monete.
Forse sarà la più grande dimostrazione dell’esistenza di un Dio burlone della mia vita…non so…sta di fatto che le lancio non so come sopra il cestino…e cadono sulla stoffa. Tutti vedono, tutti fanno ’10 + 20…30′. L’omino non lo guardo in faccia ma di sicuro ha stampato un ghigno di sdegno e scomunica.

Raccolgo dalla stoffa e butto dentro…pure il ‘tin’ è misero.

Con vergogna passo in rassegna gli errori fatti con ‘lo scorpione’ ma qua la fisica non c’entra nulla, semplice beffa divina che comincio a capire il perché gli altri alla fine ‘credono’…certe cose non te le spieghi.

Il problema è che me ne dovrei fregare, fare come la vecchina povera al tempio al tempo di Gesù con l’unico obolo distesa per terra, che mica è di queste cose che devi preoccuparti, fottitene e passa oltre che la vita può finire in un attimo. Una fuga di gas ed esplode tutto, kamikaze iracheni musulmani che entrano con autobomba dalla sacrestia oppure una laserata di onde gamma e plasma che arrivano da una supernova.

A questo non avevate mai pensato eh? Cadere dalle scale…incidente in macchina…ma supernova mai vero?

Una sera di due settimane fa non so come sono finito a parlare di cosmologia avanzata con un mio compare. “Tanto la terra sparisce fra cinque miliardi di anni…inglobata dal Sole che diventerà gigante rossa…” gli dico, fiero e saggio.

Il mio amico ride a squarciapalle…si lo so che si scrive crepapelle…bhe comunque ride e risponde

“Ma te sei folle…a parte che ci saremo già estinti o saremo diventati delle robe alte tre metri senza palle…senza cazzo…senza peli e che si autoriproducono…ma sicuramente prima o poi arriverà qualche cazzo di onda d’urto cosmica di raggi gamma e neutrini che ti riducono tipo Plasmon liofilizzati tempo dodici secondi…”

Si insomma…tu sei li con la tua morosa sulla spiaggia di notte che vuoi trombare mentre lei è li che fantastica dolcemente sul cielo stellato che è vecchio di qualche milione di anni…come vedere diapositive di vent’anni fa…e ti arriva questo fascio di particelle cazzute che ti riduce in carbone e non ti sei manco abbassato la zip.

E’ successo che da qualche parte cinque minuti fa, all’angolo tra la 5° strada stellare e Alpha Centauri una stella è esplosa e nessuno lo poteva sapere. Fuga di gas cosmica. Tutto finito.

C’è da andare in giro spaventati altroché…ti becchi uno davanti che ti vuole rapinare “Dammi tutto quello che hai!” ed ha una pistola in mano. Ci sarebbe da rispondergli “Ma che cazzo fai con quel pistolino…ma non sai che magari ci sta arrivando una pallottola di radiazioni a 800.000° gradi e fra due secondi siamo morti?” Gli prendi la pistola dalle mani e lo abbracci.

Ecco perché sta cosa dell’apparire alla fin fine è davvero una perdita di tempo, un vero spreco. Pensiamo un po’ più semplice.

Ritorno dal viaggetto cosmico di nuovo sulla terra. La messa è alla fine, la figa del coro canta insieme con le altre.

“E quando il sol si spegnerà e quando il sol si spegnerà o Signor come vorrei che ci fosse un posto per me…”

Che vi dicevo? Un Dio burlone.

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Pillola del 173° giorno – Alpha

Inizio a scrivere forse in terza o quarta superiore, era un tema…il commento ad una poesia, il mio primo grosso lamento su carta. Quattro facciate di protocollo, tre righe di commento standard e altre ottantasette sul come mi sentivo quando mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo, di come vedevo riflesso qualcun altro e se parlavo…non ero io a farlo, chissà da dove veniva fuori quella voce.

Torno a casa, a mia madre dico “è andato male”

Quattro giorni dopo prendo nove e i complimenti pubblici della prof., un paio di compagne che mi chiedono di poterlo leggere e io penso che forse è la prima volta che credono che abbia davvero qualcosa di profondo da dire oltre alle battute, alle cazzate, a fare il simpatico…anche se è sempre stato tutto li dentro, fin da piccolo…è sempre stato cosi.

“Posso?”

“E’ un po’ personale…”

“Beh se non vuoi…”

“No dai…tieni…”

Leggo Norvegian Wood di Murakami, passo giornate a parlare con gente virtuale, le uscite con gli amici, inizio a scrivere pensieri, leggo ‘L’Alchimista’ di Coelho dopo un’adolescenza a coltivare sogni di avventure con Cussler, Crichton, Tolkien. Amore…prendo e perdo. Amici…prendo e perdo, come perdo anche occasioni…e perdo colpi…e cado e mi rialzo, ricado, mi rialzo, cado ancora e non mi rialzo più. Stanco, mi infilo in una gabbia di paura e timidezza dove scrivo poesie…un disastro…melense, piene di metafore, immagini figurate, unte e bisunte, grasse, farcite, disgustose. Scrivo cose terribili, sperimento l’andare giù e sentirsi un vero alieno, non esco con nessuno, non rispondo a nessuno, invento scuse, bugie, cazzate e sto nella gabbia, al buio, a lamentarmi, a mangiare ed ingrassare finché dalla porta non riesco nemmeno più ad uscire e scrivere…smetto anche con quello, mangio e ingrasso e basta, ancora e ancora…

Poi mi addormento.

Mi sveglio quando sento che le sbarre mi lasciano segni e fa male, mi rialzo e cerco di uscire ma ci vuole tempo. Aspetto. Ancora tempo. Aspetto ancora e intanto reinizio a scrivere finché la porta non si allarga o forse sono io a stringermi ed esco di nuovo e recupero gli amori, gli amici, la bella scrittura, il mare, le giornate di sole, correre finché il cuore non scoppia, risate, marmellata alle arance, figure di merda, lavoro, università, sbronze, cotte estive, ragazze che pensi siano troppo belle, la gente di merda, le giornate in cui lasci l’ombrello a casa e ti becchi il diluvio e a te non te ne frega un cazzo che l’importante è che ci sia la musica.

Cresco, ormai uomo o almeno credo o almeno cosi mi dicono e continuo a cadere, rialzarmi, cadere di nuovo finché non imparo che cadere e rialzarsi è il succo della vita…è cosi, sarà sempre cosi. Quando mi rialzo lotto, vinco e perdo, conquisto persone e cose, rido, piango, soffro, amo allo sfinimento e mi incazzo, bugie e troppa sincerità, faccio lo stronzo, sono troppo buono, intrattabile, solare, meschino, pazzo, folle, energico, sudato, positivo, a volte in piedi, a volte a terra…in piedi…a terra…in piedi…a terra…ma ormai ho capito la lezione mi dico, le cose cambiano anzi, sono cambiate…d’altronde le strade portano sempre da qualche parte…o almeno credo, o almeno cosi mi dicono.

Poi un giorno rientri in casa, più di dieci anni dopo, stesso specchio di quel tema e non ti riconosci…il riflesso è quello di qualcun altro, parli e quella voce non è tua e quindi, nonostante quello che credo, nonostante quello che mi dicono…cosa è cambiato?

Pillola del 159° giorno – Oggi mi sono svegliato e desideravo le branchie…

Seduto sulla tazza, leggo da una bacheca altrui un altro aneddoto di un professore che fa giochetti con i suoi studenti, il tipico “dovete guardare la luna mica il dito”.

Coglioni.

Non so voi, ma io, ogni volta che leggo una di queste storielle, mi chiedo sempre se sia davvero accaduto, se sia sempre il solito professore che le racconta e se esistono davvero professori che fanno ste robe stile “cogli l’attimo”. Cioè, cosa insegnano? Lettere? Filosofia? Il mio professore preferito la insegnava filosofia e sapete cosa faceva? Spiegava. Poi, quando mi interrogava, si esaltava se arrivavo ai pensieri giusti, gridando “Bravo Emmanuel!” come Kant mentre quando dicevo puttanate stava zitto, guardandomi fisso da dietro gli occhiali tondi, con quella sua testa piena di barba inclinata verso il basso. Quando finivo “Non ci siamo Emmanuel…” come Kant “…stai dicendo una marea di cazzate…” diceva.

Storielle tutte uguali e inutili, una con la sabbia grossa e fine e il vaso, una con il foglio bianco e la macchia nera, una con il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto e ve ne creo altre mille o diecimila o diecimila milioni se voglio, usando le foglie delle siepi o le tessere di un mosaico, la vicina zoccola e le suore, le pagliuzze nell’occhio altrui, Indiana Jones e l’ultima crociata, partite di calcio e stadi pieni di pazzi ultras ultraviolenti, sole e raggi ultravioletti, pesci grandi in stagni piccoli o nel mare con banchi di sardine e squali, rane, scorpioni, insetti, formicai, atomi, protoni, elettroni, quark, particelle di Dio, gas perfetti. Vostra madre.

Inutili si, ma alla gente piace sta roba, le piace sentire metafore su cose che conoscono benissimo e che non possono cambiare perché di farlo…beh…non gliene frega un cazzo a nessuno. Storie lunghe o corte e barocche, piene di fronzoli e frasi che suonano bene e noi ‘scrittori’, anche se forse ‘scrittore’ è esagerato per un tipo come me, siamo Re e Regine supremi di questa disciplina e a volte, credo che se la carta parlasse potrei fare l’agente di commercio pure io, che a fottere la gente a ‘parole sonore’ invece, non sono un granché.

Io per dirvi che soffro d’amore scrivo un romanzo quando la realtà è che tutti soffrono d’amore, non dico nulla di nuovo ma dovrei uscire invece, e andarlo a confessare a chi di dovere. Figurati. Io per dirvi che sono stanco e nervoso parlo di strade asfaltate, giardini e ambienti di lavoro opprimenti. Io per dirvi che oggi fa freddo parto dai pinguini e dal rovente vulcano Samalas in Indonesia, che nel 1247 Avanti Cristoiddio ha dato via libera alla piccola era glaciale, caldo e freddo, Yin e Yang, bianco e nero, donna e uomo. Uno scrittore difficilmente dirà le cose come stanno in maniera diretta, farà dei cazzo di giri allucinanti, prendendola larga come un cieco alla guida, farcendovi di pillole narcolettiche peggio di un medico, usando termini che non capirete e che non capiscono nemmeno loro, tipo ‘IO subcosciente’ o ‘Verità’. Potreste avere qualche chance solo se lo beccate dal vivo, davanti ad una bistecca e una botte di lambrusco dolce e frizzante vuota per due terzi e tre quarti di terzo, depurato da tutta quella merda ma su carta…Non.Avete.Speranza.Alcuna.

Lo notate anche da questo pezzo dai…righe e righe di lamenti riassumibili in una frase e tanta ipocrisia su questa moda del “Carpe Diem”, che io, quello figo anticonformista, ci sono cascato e ci casco ancora. Sempre. Oh…lo ammetto, anzi, ammettiamolo tutti noi ‘scrittori’…riuscire a trovare significati e lezioni di vita banali con frasi e situazioni complicate che non c’entrano nulla è bello ed inutile, un esercizio stilistico che se poi azzecchi pure il finale con frasi ad effetto quasi quasi ci spariamo una sega. Storielle, racconti, aneddoti per far vivere meglio (ahahaha) o accendere il cervello della gente (ahahahaha!) scrivendo di utopistici stili di vita ideali. Ala fine a noi va bene cosi, a TUTTI va bene cosi, perché soffrire un po’ ci piace o almeno, a ME piace e anche fantasticare su una vita migliore MI e VI piace e finiamo nel cercare una morale anche nella lista della spesa.

“Vedo che hai preso la Nutella…forse è carenza d’affetto e vuoi spalmare quella piccola puntina di dolcezza che tieni sul freddo coltello della vita reale…che punta alla tua serenità come spada di Damocle….sopra la vasta superficie del tuo cuore spezzato…”

“No…è che mi piace quella cazzo di Nutella brutto idiota…”

Tipo, ora vi racconto che stanotte mi sono svegliato alle 4:48 che accidenti, sta diventando un appuntamento fisso che mi dà sui nervi, mi sveglio affannato, controllo l’ora e mi dico “bene, ho altre due ore da dormire” ma la realtà è che tutto comincia a diventare scomodo. La spalla è scomoda e te la vorresti togliere, poi il gomito diventa scomodo, le palle e il pisello pure, via anche quelli e la gamba con quel ginocchio dolorante e il malleolo che tocca dentro il bordo del letto, via! Poi togli il busto che non respiri bene, sembri in apnea sott’acqua e desidereresti le branchie e ti accorgi che alla fine quelle due ore le dormiresti con solo la testa ghigliottinata dentro una cesta di vimini rivoluzionaria, dopo la presa della Bastiglia.

“Bonne nuit!”

“Dovrei prenderla una pastiglia…sonnifero…” penso, e sono le 5:32. Prima, sognavo di una stanza con gente deforme, gobba, sformata e mutante che mi toccava e mi cingeva continuamente, portandomi a spasso con le loro braccia multiple, bocche multiple, nasi deformi, bubboni, corpi devastati con carne a vista ed ero fin troppo sicuro che mi avrebbero contagiato con la loro grottesca apparenza, facendomi diventare brutto a mia volta, deforme e con le branchie, ancora, come loro…come se la parte più nascosta e reale che tengo dentro in sacche piene di acido gastrico cucite sottopelle venisse fuori, rivoltato come un calzino o un K-Way double-face o “dublefas!” che fa tanto francese; di nuovo me stesso, libero da barriere, brutto come sono davvero, cappello a cilindro, bastone, sorriso storto davanti allo specchio del bagno, orrendo ma vestito elegante, pronto a presentarmi di nuovo al mondo.

“Bonne soirée!”

Quando mi alzo, dopo quelle due ore di non-sonno passate a rigirarmi in un talamo scomodo con tutte quelle parti di corpo di colpo inutili, penso solo al cibo, con la speranza che i cereali siano davvero finiti per concedermi gustosi biscotti inzuppati nel latte, con gocce di cioccolato che si sciolgono, roba che in regime di allenamento estremo viene abolita ma se non c’è altro da mangiare d’altronde…magari…no…niente…ci sono invece…eccoli…il recipiente è stracolmo di fiocchi, si erge come un silos marchiato Kellogs sulla tovaglia a fiori che la odio quella plastica decorata, troppi girasoli.

Nel bagno dopo, deluso per i fiocchi d’avena, con la luce accesa e il buio fuori e il freddo leggermente percettibile, mi lavo, mi asciugo. Accendo il vecchio Caldobagno, che funziona ancora perfettamente nonostante l’età, sempre pronto ad aiutarmi nei momenti di parziale ipotermia, con quella sua sembianza da Darth Vader poco rassicurante.

Mi ci piazzo davanti, le mani sul volto e per un po’ gli occhi li tengo chiusi. Poi, comincio a guardare attraverso la fessura che ho lasciato tra le due mani, fissando la luce rossa accesa su quel bottone di plastica, con i bordi delle dita tutti sfuocati, ringraziando di avere un rovente e vulcanico Caldobagno trattato bene e che ‘funziona ancora perfettamente nonostante l’età’, sapendo che da ora in avanti i secondi, i minuti, i giorni, le settimane, i mesi e gli anni saranno sempre più freddi, come una nuova piccola era glaciale.

Sto lì, in quella posizione, ancora qualche istante…

Beh? Quindi? Qual è la morale?

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Pillola del 153° giorno – Pasqua

Stravaccato su una poltroncina con rotelle e tessuto verde mentre attendo che la stampante RICOH multi-accessoriata con scanner, caricatori multiformato, tamburi e slot colori singoli ad innesto rapido sputi fuori risposte cartacee ai miei input annoiati.

“Sai perchè ti sei sempre infilato in situazioni impossibili e complicate? Perchè hai paura di innamorarti davvero di una persona facile da raggiungere…è una cosa inconscia la tua” mi dice la segretaria con voce severa

“Sarà…magari è quello…e poi chissà se mi sono mai innamorato davvero…” rispondo, mentre gioco con una chiavetta USB piena di pezzi della mia vita.

“…quando ci penso…non ne sono davvero sicuro…” continuo.

Stravaccato su una poltroncina con rotelle e tessuto verde nel terzo giorno di pigrizia di fila, con un po’ di dubbi e di pensieri mentre gioco con puzzle a tinta unita che mi fanno uscire di testa. Devo concedermeli ogni tanto, tre giorni cosi, come faccio per l’insonnia che mi distrugge l’esistenza. Capita, a fine mese, che per tre giorni dorma come tutti gli esseri normali. Capita che dopo un mese di allenamento intenso, mangi pizza per tre giorni di fila. Capita e mi tiene sano di mente ricordarmi che a volte la forza di volontà, l’impegno, la sicurezza, le idee chiare si ritrovino disperse in un banco di nebbia, perse in un bosco, per tre giorni.

Negli ultimi istanti di lavoro, stavolta di giù, lontano dalla super stampante, fisso lo schermo svogliato e uccido un po’ di zanzare tigre. Mi passo la mano destra sui capelli da tagliare, sulla barba incolta e sento quel dolore che morsica il polpaccio. Penso che tanto manca poco alla mezzanotte e che da domani si ricomincia con un paio di pile nuove, cancellando le ultime settantadue ore e i lamenti dei muscoli e i puzzle e i pensieri.

Si, tre giorni di fragilità vanno bene.

Se li è concessi anche Gesù.

Pillola del 137° giorno – L’abito del monaco

Mentre confeziono nella noia degli ultimi minuti di lavoro un cuore fatto in filo di stagno, mi ritrovo a pensare a come io appaia alla gente, quando mi incontra. Di certo non sembro uno che confeziona cuori di stagno abitualmente, questo è sicuro.

Quando ieri camminavo tra la gente del corso, provavo ad immaginare di incontrarmi per caso sulla strada per vedere un po’ che impressione faccio, cosi, dall’esterno, a me stesso.

Ha senso?

Indosso una maglietta che mi sta diventando piccola, perchè da quando la spalla sinistra collabora un di più riesco ad allenarmi ogni giorno e questo mi fa sembrare ancora più grosso. Ci sto dentro a stento. Da fuori, un sacco di gente potrebbe pensare che occupo due-tre giorni alla settimana in palestra a pomparmi, per questioni di apparenza, per sembrare grosso e cattivo e far paura alla gente e provarci con le tipe sui tappeti da corsa. Potrei sembrare un tipaccio, uno psicopatico, “non ti conoscessi non ti vorrei mai incontrare da solo in un vicolo” mi dice un amico. Ma loro non sanno che ogni giorno, anche se stanco dal lavoro, mi ritrovo in una piazza, con la gente che prende l’aperitivo e che mi guarda come fossi uno scemo, a sudare e a resistere alla fatica e alle gambe che bruciano, alle braccia insensibili, appeso a sbarre, a muretti, a correre, saltare, ruotare le articolazioni anche quando piove, quando c’è freddo e la neve per terra, quando esco dalla ditta e il sole è sparito da due ore e tutto questo solo per amore del movimento.

Mi incrocio mentalmente sul pavè della piazza e penso che mi vedano serio, che non sorrido mentre cammino dritto e tutto questo riflette la prima impressione. Per loro è un “stanne alla larga” istintivo, ho la faccia di uno da non far salire in macchina se mi trovano a bordo strada che faccio autostop. Uno che non scherza perchè non ama scherzare, inutile farmi battute, sono un duro, cuore di pietra, anche se ne confeziono di stagno. Ma loro non lo sanno, la realtà è che non sanno che non sorrido solo perchè la mia faccia non mi piace cosi tanto quando mi viene da ridere. Non sanno che penso sia cosi anche per gli altri. Magari sbaglio, ma io mi vedo strano, mi sento strano, quasi un po’ forzato quando sorrido. Se mi dicono “ridi che facciamo una foto” ne esce un mezzo ghigno. Poi, bastano due minuti e mi metto a diffondere gioia per ogni stupidaggine mentre ne sparo una ventina pure io. Mi serve qualche minuto per carburare quella parte del cervello.

Mi osservo guardondomi dritto negli occhi e anch’io mi osservo, guardandomi negli occhi mentre mi passo a fianco. Ho lo sguardo tagliente.

Ha senso?

Capisco quando dicono che tiro occhiatacce, credo che da fuori sembra che io odi la gente, che sia costretto ad attraversare fiumane di persone per me insignificanti e che guardo con disprezzo. In realtà osservo tutto, fin nei minimi dettagli ed è perchè scatto mentalmente, come se avessi la mia Fuji sempre in mano. Ogni scena di vita per me è inquadratura, ogni dettaglio insignificante può nascondere del bello, e tutti quei dettagli e i gesti minimi, diventano anche le storie che leggete qua sopra. Non disprezzo, amo.

Se tiro le fila del discorso, ne viene fuori che io sembri davvero una brutta persona da fuori, da sobborgo di Caracas, che nasconde il ferro e fa affari loschi, picchia i bambini, maltratta le donne, pensa solo a se stesso, psicopatico.

La realtà è che faccio il designer, il fotografo street, lo scrittore, ogni giorno. Amo Bukowski e Murakami, mi commuovo con i film, non riesco nemmeno a schiacciare gli insetti che trovo in casa, devo riportarli fuori. Amo fare regali agli altri, ho bisogno degli altri. Adoro il mare, il rumore del fuoco, la luce che rimbalza sugli oggetti, ridere.

Ho sentito un sacco di giudizi riportati, sentendo voci, su di me. “Sembra uno stronzo” “egoista” “egocentrico”. Tutto da gente che mi ha visto una sola volta.Credo di essere abbastanza disastroso alla prima impressione.

Purtroppo la gente è davvero stupida mi dico. Però poi, penso a me stesso e a quante volte anch’io finisca per fare la stessa cosa.

Vorrei davvero provarci d’ora in avanti a non mettere mai più una persona in uno schedario dopo i primi quattro minuti.

Che alla fine anch’io quando sono ‘la gente’ sono stupido.

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Pillola del 135° giorno – Man in the box

 

Mi approccio alla scatola timbratrice per chiudere il giorno lavorativo.

Mi approccio all’ennesima scatola che mi comanda e che mi dice cosa fare, quando farla e senza spiegarti il perchè, ne di risposta ne di quelli pieni e veri, che contengono tutta la mappa delle direzioni e dei bivi con avvisi sonori stile autovelox nel GPS, quando la faccenda si fa complicata e pericolosa.

Sono stufo delle scatole. Quelle in cui vivo, quelle in cui metto il cuore e i ricordi e che finiscono in soffitta, quelle rumorose o troppo silenziose, come candide stanze d’albergo insonorizzate, vetri doppi, porte doppie, letto doppio, whisky doppio dopo l’ennesima riunione tra me e lui, il mio doppio.

Le scatole hanno pareti quadre e grossi coperchi quadri, spigoli vivi in cui si accumula sporco che non riesci a non guardare perchè li ci finisce anche l’ombra e il nero diventa solo più nero. Le scatole sono figlie di logica e geometria, ogni cosa inserita in un suo spazio con i suoi limiti fisici di peso, con il cartone che si piega e si rompe e si rovina quindi mai esagerare, mai, con le scatole.

Mi ci sono intrappolato in una scatola.

Tutta la pazzia e tutta la follia che metterei nella mia vita, nell’amore, nelle parole che scrivo stanno dentro una scatola che non posso aprire perchè mi dicono che non si può anche se poi cambiano idea, mi dicono che posso ma io ho paura.

Paura di fare casino. Ho sempre paura da quando sto nella scatola.

Quando è giorno, i profili si illuminano come neon, il cartone sembra cosi sottile. Quando piove, il coperchio si piega e temo che l’acqua lo sfondi, che si riempa come una piscina, che muoia affogato.

Quando cerco la libertà invece, scopro che le scatole non hanno porte, non hanno appigli, non hanno scalette.

Stai li e speri, che qualcuno passi di la, si chieda “ma cosa c’è qua dentro” e tolga il coperchio.

 

 

Pillola del 112° giorno – Decimali

Un unico pensiero fino a quando riuscirò a prendere sonno, questa notte. Ne sono terribilmente certo.

Le ossessioni sono durissime, sono zecche. Prosciugarsi lentamente mentre nella testa c’è il rumore di un martello all’opera, che parte ovattato in lontananza per poi diventare forte, persistente.

“Persistente…non ci penso”

Lo dico facendo un respiro profondo, cercando un equilibrio ma il risultato è che ci pensi più di prima. Provi a pensarci con tutto te stesso allora, facendo il contrario, aspettando che il cervello si stanchi ma tutta quella energia diventa una stretta alla pancia implacabile. Come bere fuoco.

Forse c’è solo da fuggire e ritrovarsi troppo lontano per agire, sbagliare, aggiungere caos. Fare disastri. Perdere tutto. La via del codardo, che ho preso mille volte dopo le altre mille che ci ho provato, fallito, ricominciato, riprovato, fallito di nuovo e di nuovo, ancora e ancora.

Non so esattamente come succedano le cose, li, dentro la testa, poi nella gola e nello stomaco, nella pancia e in quei puntini sulla pelle quando senti un brivido. È possibile che tutto quel casino sia una specie di vento vorticoso che ti mischia l’alfabeto e il pensiero A diventa B e ti svegli che è cambiato tutto e nemmeno sai quando, perché, come. Magari in un sogno, dopo un’idea, con una stretta di mano o durante una telefonata, non lo sai. Butto via tempo in un impegno costante all’insegna di creare categorie, selezione precisa di cose da fare e non fare, cosa pensare e non pensare, schedario di persone e come comportarsi con loro ma si tratta solo di mucchietti di foglie separate, come nel prato davanti casa, autunno, rastrello in mano, nuvole nere all’orizzonte e brontolio sommesso del cielo. Basta un piccolo tempestoso vento di dubbio e incertezza per spazzare tutto, mischiare le carte in tavola. Pragmatismo, logica sono fatti per scontrarsi con istinto e sentimento e io sono animale. Cazzo, lo so già chi vince.

L’ho sempre saputo che i miei mucchietti sono solo castelli di carta. Non ci riesco a ragionare, risolvere equazioni, distinguere tra giusto e sbagliato, riuscire ad avere risultati esatti, senza virgole.

Quando esco tra di voi, tra la gente e ci vediamo, faccia a faccia, mi chiedo se lo noti  che tutto sta cambiando e che io sto cambiando, ancora una volta.

Il destino di una vita fatta di virgole e decimali.

Pillola del 91° giorno – Sommerso…

La penombra che c’è di sera, nel mio bagno mi piace molto. La tapparella, un po’abbassata, lascia che solo un quarto di luce penetri nella stanza. Se vi dicessi che il 90% delle buone idee e dei pezzi che scrivo li creo qui, sdraiato nella vasca, ci credereste? Se vi dicessi che se sono arrabbiato dentro questo blocco di mattoni e ceramica, io mi riappacifico con tutti, che l’ansia passa, che tutti i problemi stupidi e i complotti che creo perdono di importanza, voi ci credereste? Anni fa mi immaginavo la pace, o meglio, una tregua dal mio flusso di pensieri, seduto su una roccia in Islanda, o di fronte ad un mare in tempesta. Sapete quando avete la chiara immagine di voi in silenzio senza nessuno, senza il mondo che urla…sono sempre esotiche quelle situazioni nella vostra mentre quando in realtà, un po’ di pace la potete trovare molto più vicino. Forse è quel parco con quella panchina senza schienale ed un pino stanco che sta morendo. Forse è quella stazione ormai chiusa, sopra la collina, tappezzata di disegni e che non sapete perché, a voi ricorda la campagna e il fieno. Forse è un variopinto mercato pieno di voci ma che non urlano di dolore, amore e soldi, è solo un rumore di fondo che vi culla.

A me dispiace sempre uscire dalla mia vasca, allontanarmi da quella penombra con la betulla che si intravede e che si muove ogni tanto. Allontanarmi dalle voci ovattate dell’esterno, dai riflessi sul legno…

È come se avessi la certezza di tornare ad essere il problematico, confuso e solitario me stesso e accidenti, io non voglio.

Quando esco da quella porta, ricomincio a peggiorare, a diventare una persona diversa.

Questo mi spaventa.

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Pillola del 89° giorno – Cancello

C’è una cordicella colorata attaccata al mio cancello, messa in modo che se qualcuno lo apre quella lo impedisce, come un nemico invidioso. È per i bambini del mio condominio che è messa lì, perché sono bassi e ignoranti nel senso buono e non capiscono quale magia gli impedisca di decorare qualche parafango automobilistico nella loro prima eventuale avventura nel mondo. Ogni volta che apro il cancello, un gesto più automatico di respirare, tiro con forza ma mi dimentico di quella cordicella del cazzo e come un elastico, il cancelletto mi si richiude davanti. Mi fa incazzare.

Non so perché ve lo racconto, è che ultimamente mi sento più vicino agli oggetti che alle persone e oggi, quella cordicella aveva diversi colori intrecciati, con doppio nodo, che non avevo mai notato. Leggera scrostatura sul cancelletto invece, e le goccie di vecchie pitture, la cassetta della posta inclinata all’indietro che rasenta una siepe stanca. Dettagli e sensazioni che di solito nemmeno consideravo, oggi mi incuriosivano, come se avessi lo zoom negli occhi mentre il resto, comincia a non interessarmi e passa inosservato…

Io mica lo so cosa mi sta succedendo.

Pillola del 88° giorno – Strutture elementali metafisiche

Tipo che qualche ora fa, mentre andavo in giro, mi trovo una macchina davanti allo stop. Io aspetto che parta ma quello nulla, se ne sta li nonostante ci siano meno auto in arrivo che durante lo storico scopero delle bisarche. E’ che io poi lo sorpasso e girandomi vedo che alla guida c’è un cinese. Che dorme, alle 5 del pomeriggio, in macchina ad uno STOP.

Non che c’entri nulla ne con il titolo ne con il mezzo ne con la fine di questo diario ma uff, è che ringrazio ogni giorno che ci sia una di queste cose da raccontare perchè cazzo…io non ho più voglia di nulla, quasi nemmeno far parte di quella vena di follia che mi capita di incrociare nel mondo e che tutto sommato mi tiene attivo.

Quindi benedetto quello stronzo di cinese di cui scrivo con un televisore a 5 centimetri dall’orecchio con dei raptor che si scannano contro un T-rex, l’ennesima pizza troppo pesante in corpo, seduto male, con la tastiera in bilico su un minuscolo seggiolino rosso, in un cesso di buco tappezzato di interessi standard e banali.

Benedetto davvero, perchè mi evita di chiedermi ogni 30 secondi.

“Ma Dio…che cazzo sto facendo?”

Pillola del 85° giorno – Smetto quando voglio

Bianco su bianco con le mutande che fanno pendant con copriletto e federa che mi sento l’unico angolo di luce nel nero profondo e il semi-silenzio dell’atmosfera tutt’attorno.

Sono un tizio che oggi inizia e distrugge ogni volta che prende in mano la penna causa pena che provo per me stesso causa piena consapevolezza di affidarmi a cliché scrittorici, schemi che straripano per istinto nella struttura di cazzate che metto su carta digitale.

Voglio scrivere cose straordinarie e sono anche abbastanza stupido da essermi convinto di poterlo fare davvero, nonostante una vita ordinaria e solitaria giusto condita da sogni fumosi che ti chiedi “ma che cazzo racconto” e un vocabolario di termini in disuso che fanno scena, come “acquiire” “cipiglio” “pavido” “missiva” e nei miei schemi, nei miei puntini di sospensione, in quelle frasi finali con anteposto spazio di attesa di cui abuso come un tossico non racconto un cazzo di non visto non sentito non vissuto non sperimentato Da. Qualsiasi. Altro. Stronzo.

Se fossi dalla vostra parte,gli ingenui che perdono tempo tra i miei periodi, il dubbio mi verrebbe: che dipingo una vita banale con colori sgargianti e anche questo pezzo fa la stessa cosa, solo con un tono più arrogante, complicato, fatto male, diverso dalle altre volte ma truffandovi ancora, convivendo con voi in una realtà stretta in cui siamo tutti noiosi uguali, in cui non c’è più nulla da inventare e giusto si esagera, raccontando i desideri inconfessabili o scrivendo ‘cazzoculo’ parlando di droghe sperimentali, scopate fetish, voglia di ustioni con pezzi di ferro arrugginiti tutto con mille parole più del necessario, senza virgole spezza ritmo e pieno di termini inventati come “elettroagnostici”. Facendo quelli senza vergogna, che è roba per i deboli la vergogna, complicando sempre di più la scrittura poi, tracciando una sequenza di sostantivi che suonano bene messi in fila, estraniando la sintassi per esaltare pensieri che inondano la sinapsi come endorfine.

Non dicendo assolutamente nulla alla fine, com’è appena successo.

Vorrei sapere se esiste la via comoda per arrivare al pezzo straordinario che tutti ricordano, la strada dritta per la gloria che vogliono tutti gli scrittori, per svegliarsi e trovare la cassetta rossa della posta virtuale in latta virtuale davanti al tuo indirizzo virtuale e la tua bella casa virtuale pieno di lettere virtuali di gente che ti stima ma che tu non sopporti, che vuole diventare come te mentre tu manco morto. Che vuole amarti anche per una sola notte quando tu nemmeno li vorresti toccare o emularti anche solo comprando la tua stessa giacca primaverile o tentando di ucciderti che anche quello è un complimento mentre tu, ti senti soffocare alla sola idea di respirare la loro stessa aria sul TUO pianeta.

Siamo solitari e insofferenti anche se sappiamo tremendamente bene che se noi aspiranti scrittori scrivessimo solo per la nostra gioia butteremmo fuori solo pezzi di merda o nemmeno prenderemmo in mano la penna. Non è del fottuto jogging, per stare bene con noi stessi. Non è la vacanza che ti rigenera.

Ci piace piacervi ed è sofferenza nell’attendere il vostro pensiero e una volta carpito ne vogliamo ancora e scriviamo sempre di più, per tirare in cima l’asticella dell’ego, fino al limite, a quel pezzo straordinario e a quel punto, quasi sazi, giunti al traguardo, godersi i frutti e temporeggiare finché morte non mi separi dai vivi, potendo dire finalmente, “smetto quando voglio”

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